fiabe

Pidocchio

Nel paese di Spendaccia, enclave internazionale, la popolazione locale viveva nel lusso e nell’abbondanza, poichè apparentemente si trattava di un’isola felice dove il governo diceva che la disoccupazione era in calo e gli stipendi erano molto più alti della media.
Qui le attività commerciali fiorivano e le persone trascorrevano la maggior parte del loro tempo libero facendo shopping compulsivo, acquistando anche beni di lusso ed oggetti per la maggior parte perfettamente inutili.
Il sindaco del posto, il Dottor Malandro Manibuche (lui amava pronunciarlo alla francese “Manibusc’”), che non aveva molto da fare, senza problemi di migranti e delinquenza, aveva emesso un editto che addirittura abbassava le imposte su tartufi ed aragoste ed un pieno di benzina alla Ferrari costava quanto un pieno di un motorino a Napoli. La sede comunale era stata progettata dall’arcinoto designer Renzo Pianerottolo ed alla mensa sulla roof-terrace, una volta alla settimana, veniva a cucinare il noto chef Craccola, ovviamente pagati dai soldi dei contribuenti che però erano felici di questo.
In un impeto di generosità politica, il dottor Manibuche si vantava di aver accolto a Spendaccia un migrante che viveva in un enorme attico affacciato sulla strada principale ed aveva 15 persone di servitù ed una piscina sul terrazzo e tre volte alla settimana organizzava rumorosi bunga-bunga. I media sinistrorsi insinuarono che non si trattava di un migrante, bensì del nipote dello sceicco Alì Al Vizyat che era stato mandato a Spendaccia in punizione dallo zio per aver rigato la carlinga del Boeing 777 di famiglia volando completamente ubriaco.
A Spendaccia, durante i saldi, i prezzi aumentavano e gli entusiasti cittadini facevano la fila per accaparrarsi splendide cose inutili a prezzi esorbitanti.
In un quartiere residenziale alla periferia di Spendaccia viveva il figlio di un falegname che era stato tra i padri fondatori del paese e che aveva contribuito, col suo duro lavoro, a far diventare quel posto uno dei più privilegiati al mondo.
Il suo nome era Nicolò Dell’arca ma per tutti i cittadini di Spendaccia il suo soprannome era “Pidocchio” perchè non partecipava mai alle iniziative cittadine mondane e non lo si vedeva mai nei lussuosi centri commerciali del paese a fare acquisti.
Il particolare nick gli era stato appioppato dalla contessa Pinina Zoccoletti De Inutilis che faceva parte dell’elite spendacciona del posto che non capiva come Nicolò potesse essere nel novero dei rispettabili cittadini del paese senza prendere parte a nessuna delle iniziative “social” che si svolgevano quotidianamente a Spendaccia.
Nicolò era solito fare la spesa nel minimarket del suo quartiere invece che al mega centro commerciale “Vinkulo” di proprietà del commendator Gattis e di sua moglie, signora De Vulpis. Inoltre girava a bordo di un’utilitaria che aveva da più di dieci anni ed aveva un cellulare del tipo di quelli che si aprono “a cozza” invece che, come tutti i suoi concittadini, l’ultimo modello di smartphone che vibrava quando era il momento di andare a pisciare perchè ti mandava l’alert del messaggio di “vescica piena”.
Gli influencer di Spendaccia prendevano in giro “pidocchio”, parafrasando una nota favola, dicendo che ogni volta che Nicolò andava al risparmio, gli si accorciava il braccio destro, da qui anche l’altro soprannome che gli avevano appioppato, “braccino”.
Nicolò però aveva la dote di sbattersene alla grande delle maldicenze altrui, sorrideva a chiunque e continuava a condurre la propria vita nel modo che riteneva più opportuno perchè era felice così com’era. Aveva infatti una famiglia con cui viveva sereno, leggeva decine di libri e, durante le notti stellate, preferiva alzare gli occhi al cielo e porsi domande difficili, piuttosto che averli abbassati sullo schermo di uno smartphone o di una TV ed ascoltare le domande stupide di qualche telequiz poste da un tizio superabbronzato con un sorriso falso come una banconota da 15 euro e coi capelli impomatati con un improbabile papillon rosso su un orribile abito color verde Shrek.
Quasi tutti i cittadini di Spendaccia avevano il conto corrente in una delle due grandi banche del paese, la banca Bidolanum o il Monte dei Pacchi di Sera che elargivano mutui ed emettevano bond come caramelle in maniera che gli spendacciani potessero continuare a comprare tutto il comprabile indebitandosi fino alla cima dei capelli oppure investendo anche quello che ancora non avevano guadagnato. Il prodotto che andava a ruba era denominato “Melo day a babbo morto”; un prestito dilazionato in rate infinite che ti schiavizzava fino alla fine dei giorni, però se non pagavi due rate venivano a toglierti tutto, anche le mutande e ti cacciavano da Spendaccia, perchè se volevi vivere lì dovevi sottostare alle regole del sistema.
Quando Nicolò riuscì a mettere da parte una bella sommetta, chiuse il conto, incassò l’intera cifra e si trasferì a vivere con la sua famiglia in un paradiso fiscale sudamericano dove il suo capitale, adesso si gli consentiva di vivere una vita molto agiata senza la facciata di Spendaccia e le truffe delle sue banche.
Un bel giorno, mentre Nicolò faceva colazione al tavolino del suo bar preferito in riva al mare del paesino in cui viveva, lesse sul giornale che Spendaccia e le sue banche erano falliti, l’economia crollata ed i suoi abitanti fuggiti in continente a fare i braccianti elemosinando un posto di lavoro.
Nicolò si concesse un sorriso sardonico e continuò a bere il suo caffè mentre i raggi del sole gli accarezzavano il viso.

Il circo della luna piena

Questa è la favola del circo della luna piena, uno spettacolo fantasmagorico con numeri di artisti ed animali che provenivano da ogni pianeta della galassia, esibendo abilità così particolari da lasciare a bocca aperta tutti quei fortunati spettatori che avevano la possibilità di procurarsi un biglietto.
Infatti al “full moon circus” non poteva accedere chiunque, perchè non si svolgeva nella realtà ma soltanto nei sogni ed il biglietto di ingresso non poteva essere acquistato in denaro da nessuna parte ma veniva offerto in sogno da un personaggio strano che si faceva chiamare Keter, il quale sceglieva, a suo insindacabile giudizio, ogni essere che meritava di assistere alle meraviglie spettacolari del circo della luna piena.
Lo spettacolo si svolgeva ogni 29 giorni ed una volta raggiunta la capienza prevista con coloro che erano stati prescelti, Keter, che aveva il ruolo di presentatore, organizzatore e si diceva anche che fosse l’assoluto signore del circo, appariva nei loro sogni vestito con un abito blu trapuntato di stelle argentate con un cilindro in testa che emanava fiamme rosso fuoco e recitava ad ognuno frasi in rima del tipo “non lasciare che la tua vita sia un circo, a questo spettacolo sei stato invitato e qui nessuno è mai stato ammaestrato. Ecco qui il tuo biglietto, non dirlo a nessuno e tienilo stretto”.
Ed ecco che nello spazio enorme del tendone, tra odori galattici e spettatori variopinti ma meritevoli, aveva luogo lo spettacolo degli spettacoli, introdotto da Keter che, al centro di un occhio di bue di luce, esordiva sempre con le stesse parole: “siete svegli o state sognando? questo è lo show del come e del quando. Il come lo decidiamo noi, se adesso o dopo lo decidete voi. Non ci son trucchi nè cose obbrobriose, aprite la mente, persone meravigliose… che lo spettacolo abbia inizio…”
Il circolo di intensa luce proiettato sulla rilucente figura di Keter andava quindi restringendosi poco alla volta come un’eclissi, sino a diventare un raggio puntiforme che si rifletteva sulla stella argentata più grande che era cucita sul taschino del suo strano abito, all’altezza del cuore, sino a scomparire del tutto, lasciando il tendone del circo per qualche attimo in un buio silenzioso un pò irreale, al punto che gli spettatori, affascinati da quella presentazione spettacolare, in attesa di ciò che sarebbe venuto dopo, trattenevano il respiro per tutta la durata dell’assenza di ogni luce e rumore.
Lentamente come si era assopita, la luce iniziava a tornare tramite l’accensione dei fari del tendone a strisce gialle e blu, uno alla volta, emettendo uno schiocco che faceva roteare le teste degli spettatori da una parte e dall’altra come se stessero assistendo ad una partita di tennis.
Quando tutte le luci furono accese, voci e risate iniziarono a riempire il vuoto del tendone che faceva da cassa acustica, ma ben presto furono sovrastate da una musica che sembrava la colonna sonora di una di quelle vecchie filastrocche per bambini…paraponziponzipà.
Dalle tende sul fondo fece il suo roboante ingresso un coloratissimo clown che così si presentò: “Saluti a voi, grandi e piccini, io sono Tabby, re pagliaccio, col mio sorriso le lacrime scaccio, ma sempre una resterà sul mio volto, solo a memoria di ciò che mi han tolto. E’ questo un sogno, oppur la realtà? Lasciate i pensieri e chi vorrà, scoprirà”.
Il clown Tabby era altissimo, più di tre metri, ma non per il solito trucco dei trampoli, perchè riusciva a piegare le ginocchia, quindi doveva essere un abitante di un pianeta dove quella era l’altezza normale.
Tabby suonava anche un lucentissimo trombone con l’apertura verso l’alto, da cui sparava fuori, insieme alla musica, palle colorate che faceva cadere, con precisione incredibile, nella parte posteriore dei suoi lunghissimi pantaloni a fantasia scozzese, tirando l’elastico ogni volta che la palla ricadeva, senza mai fallire. Le persone lo guardavano incantate, perchè sembrava che il flusso delle palle che uscivano dal trombone fosse ininterrotto e si alimentasse da quello che ricadeva nei pantaloni del clown come l’acqua di una fontana.
Dall’apertura sul fondo usci, ad una velocità incredibile, un cavallino bianco delle dimensioni che sulla Terra poteva avere un cane di taglia media che si infilò tra le lunghe gambe di Tabby facendolo rovinare a terra, e le risate del pubblico sembrarono un boato che in quel momento sovrastò la musica. A quel punto fece il suo ingresso un esserino così piccolo che nessuno notò sino a quando montò in sella al piccolo cavallo e, con in mano un megafono, piccolo ma molto potente, iniziò a fare svariati giri della pista rotonda sollevando minuscole nubi di segatura, così cantando: “sono Golìa ma non sono un gigante, di cose belle ne ho viste tante, il mio amico Tabby sembra così grande, ma l’apparenza inganna e l’ho lasciato in mutande. Non giudicare mai dall’altezza ma solo dagli occhi e dalla dolcezza”.
I numeri si susseguirono con animali che a molti risultarono sconosciuti per forme e dimensioni, ma in nessuna esibizione furono allestite gabbie ed apparvero domatori con fruste e cerchi infuocati, ed alla fine dello spettacolo, che aveva letteralmente mandato in visibilio i fortunati spettatori, facendo loro dimenticare completamente ogni loro preoccupazione, ecco riapparire al centro della pista Keter con il suo abito trapuntato di stelle che fece il suo annuncio finale al centro dell’occhio di bue: “Gente dell’alto, amici del basso, lo spettacolo continua, restate al passo. Vi sveglierete nelle vostre realtà, ma il vero è lì oppure sta qua? Non smetteremo mai di sognare e sognatori ancora invitare, al nostro spettacolo che fa volare, perchè se anche da sveglio non sogni, rimarrai schiavo di falsi bisogni. Or tra le stelle Keter vi saluta, ogni occasione non è mai perduta, perchè se un sogno si deve avverare nessuna stella lo può fermare. Alza il tuo sguardo e guarda il tuo centro, sembra sia fuori invece sta dentro.”
Ancora una volta la luce si andò restringendo sempre di più, finendo col brillare sulla solita stella dell’abito di Keter e quando si spense del tutto, gli spettatori si ritrovarono nel buio dei loro occhi addormentati mentre li riaprivano lentamente alla luce della loro vita di tutti i giorni.
Molti di loro, al risveglio, credettero di aver sognato, inconsapevoli del fatto che tante altre persone, in luoghi differenti, si stavano risvegliando come loro, avendo nei ricordi esattamente lo stesso sogno.

La sognerìa

Sul pianeta di Notturnia, nella distante costellazione della pantera, non lontano da un grande buco nero mangiatutto, le continue tempeste di polvere oscuravano la luce della stella che, attraverso il suo calore, rendeva comunque possibile la vita sul pianeta.
I notturniani vivevano quindi in una costante situazione di oscurità e le loro giornate erano dunque scandite più dal sonno che dallo stato di veglia, il quale durava la minima parte della giornata.
Anche per questo motivo la qualità del sonno su Notturnia era considerata molto importante e la ricerca scientifica aveva sviluppato svariati prodotti per consentire ai notturniani sogni sereni, felici e persino soleggiati.
Ma ecco che all’improvviso quelli che fino a quel momento erano stati sogni sereni, iniziarono a diventare terribili incubi e questa trasformazione della qualità dei sogni ben presto divenne un’epidemia che si diffuse su tutto il pianeta.
Gli integratori onirici, persino il potentissimo ganjadream, vendibile solo su prescrizione medica, anche se presi a dosi massicce, non davano più gli effetti desiderati, anzi amplificavano la cattiva qualità dei sogni e ben presto la situazione divenne critica in quanto la vita sociale stessa stava pericolosamente sgretolandosi a causa di questo inspiegabile fenomeno.
In molti si interrogavano sulla causa di questa sciagura ma a questo punto erano più importanti i rimedi. Certo, se non si capivano le cause del problema sarebbe stato difficile trovare un rimedio. Secoli addietro la medicina tradizionale lavorava esclusivamente sui sintomi senza porsi il problema delle cause ad aveva miseramente fallito. Quindi si era giunti alla decisione che la due cose erano inestricabilmente associate anche in quello specifico problema.
Da parte del governo si decise quindi di fare delle analisi a campione su ogni strato della società dei notturniani per cercare di capire se qualcosa fosse cambiato nelle loro abitudini mentali che inevitabilmente si ripercuotevano su quelle fisiche.
Gli scienziati di Notturnia scoprirono quindi un particolare collegamento tra l’aumento delle ambizioni in stato di veglia e quelle nello stato onirico, laddove la coscienza nel primo caso era guidata dalla mente e nel secondo caso dal cuore e dall’anima.
Si giunse alla conclusione che in qualche modo il pianeta stava regredendo ad uno stato in cui il benessere immediato stava prevalendo sulla parte più importante della vita su Notturnia, quella dei sogni, in cui era nascosta la vera felicità di tutti. Si prediligeva l’appagamento fisico ed il sogno stava perdendo la sua importanza.
Dal momento che non si riuscivano a trovare soluzioni concrete, alcune sedicenti menti illuminate si ingegnarono per porre rimedio ad una situazione che rischiava di degenerare pericolosamente nella fine della razza notturniana.
Ci fu chi propose nuove tasse sui beni di lusso da svegli e riduzione delle imposte sui beni onirici, chi invece propose una lobotomizzazione di massa con inserimento forzato di chip contenenti programmi video demenziali per indurre il sonno della ragione, chi ancora suggerì, come le correnti religiose, di sanzionare il sesso da svegli come peccaminoso mentre in sogno si poteva fare di tutto con chiunque…ma nessuna di queste soluzioni sembrava funzionare.
Fu così che un giovane scienziato scoprì una formula rivoluzionaria che calcolava l’algoritmo dell’amore e, applicandola ai notturniani, si accorse che il problema risiedeva proprio nel calo improvviso di questo sentimento che, se assente, lasciava il posto a tutte quelle altre sensazioni in contrasto con esso che impedivano la qualità e la quantità del sonno. Del resto era risaputo che odio, invidie e risentimento influiscono ovunque sulla qualità del sonno e dei sogni.
Egli cercò invano di convincere le istituzioni che aveva trovato la causa del problema che stava provocando la distruzione del pianeta, in fondo amore e compassione erano impossibili da creare o infondere in qualche maniera e poi non erano economicamente produttivi come la maggior parte degli inutili beni di consumo che, in base alla teoria del giovane scienziato, davano solo una contentezza apparente ed effimera sottraendo la ricerca di quell’amore vero la cui mancanza adesso si faceva sentire in tutta la sua drammaticità.
Di concerto con un suo vecchio amico, il giovane scienziato volle a tutti i costi trovare una soluzione al problema ed i due si ingegnarono per creare qualcosa che potesse dimostrare una inversione di tendenza.
Fu così che decisero di prendere in affitto un ampio locale in cui ricreare tutte le caratteristiche che potessero favorire una situazione di amore e benessere in coloro i quali decidevano di trascorrervi parte del loro tempo libero.
Dipinsero il posto con tinte di colori rilassanti, in giro c’erano cuccioli di animali, in sottofondo si poteva ascoltare musica classica soffusa, in ogni ambiente si bruciavano incensi dai profumi inebrianti, alle pareti vi erano dipinti dai temi e colori rilassanti, le persone presenti erano tutte sorridenti e ben disposte ad ascoltare e condividere, c’erano sale per la lettura di classici e poesie, su tutti i tavoli presenti si potevano gustare bevande salutari e dissetanti e frutta fresca, vi erano sale per meditare, per guardarsi negli occhi senza il bisogno di dirsi nulla, si potevano scambiare amuleti portafortuna, insomma era un oasi come non ce n’erano uguali al mondo.
Al piano di sopra c’erano stanze con letti comodi su cui finalmente si poteva cercare di prendere sonno in modo da recuperare i sogni perduti.
Lo scienziato ed il suo amico ribattezzarono questo posto idilliaco “la sogneria” .
E proprio qui successe il miracolo…tutti quelli che frequentavano la sogneria ripresero incredibilmente a fare sonni sereni ed a riappropriarsi dei ritmi normali che la vita da svegli gli aveva fatto perdere. Lo scienziato aveva dimostrato in questo modo che la sua teoria era esatta. Quell’ambiente aveva ridestato l’amore e la compassione tra le persone ed aveva guarito il loro stato. Il vero problema era la vita così come la società l’aveva imposta, sopprimere la vera natura ed i desideri in nome del denaro e degli effimeri beni di consumo aveva fatto perdere ai notturniani il loro bene più prezioso…
Ma era comunque stata creata la prima sogneria ed altre sarebbero venute poco alla volta, perchè la vera natura umana può addormentarsi anche per secoli ma alla fine i killer dei sogni verranno comunque sconfitti…

Storia di Gnigno e Gnagno

Gnigno fa l’operaio nella grande industria, “tiene” famiglia (moglie e due figli) e guadagna 1.200 euro al mese lavorando come un forsennato. Gnigno però fa parte delle centinaia di migliaia di persone in Italia affette da una strana malattia, riconosciuta e diagnosticata anche in ambito clinico: si chiama “ludopatia”. In pratica, il povero Gnigno non può fare a meno di scommettere su tutto, ormai il semplice risultato di un incontro di calcio non lo eccita più, cerca emozioni più forti e l’ultima scommessa piazzata è stata su quando il suo idolo calcistico si sarebbe grattato la prossima volta le palle in campo, se in casa o fuori casa, e sul colore del perizoma della sua fidanzata velina nell’ultima foto su Instagram. Ha giocato 50 euro e se azzecca l’accoppiata ne prende 1.250. Indovina la grattata di palle dell’idolo ma, siccome la fidanzata su Instagram non porta le mutande, “il gratta e vinci” dell’idolo non basta, la scommessa non viene pagata e Gnigno perde, come quasi sempre succede, i suoi sudati 50 euro. In preda a rabbia e sconforto e tirando bestemmioni irripetibili all’indirizzo della fidanzata dell’idolo, chiamata nel più gentile dei casi “sorcia smutandata” (il termine sorcia non è quello esatto ma potete ben immaginare come l’abbia definita Gnigno), tira un ceffone al figlio che piagnucola e piazza un calcio in culo (non così perfetto come quello della fidanzata dell’idolo) alla moglie che gli ha portato il caffè troppo freddo. Ed ecco che, laddove altri si sarebbero ingrifati come facoceri alla vista del rotondo culo della velina, lui gli bestemmia dietro.
Quindi esce sbattendo la porta e scende sotto casa nel bar tabaccheria dove, per smaltire l’incazzatura, fuma un pacchetto di Enfisem senza filtro, inizia a bere alcolici giocando ipnotizzato alle macchinette di videopoker “hot casinò pippòn” e “tette & culi a Las Vegas” che lo istupidiscono ancora di più, provocandogli svariate erezioni quando riesce a beccare tris e poker di tette e culi. Dopo un paio d’ore alienanti passate a premere un pulsante e dopo sette calici di tavernello realizza che ha perso altri 50 euro oltre al conto del bar.
Sale a casa, schiaffo di default al figlio e calcio in culo automatico alla moglie. Pensa che probabilmente in settimana si sarà bruciato tutto lo stipendio e si getta vestito a dormire sul letto che domani si lavora… Gnigno è considerato un lavoratore, buon padre di famiglia, è molto rispettato ed ha anche la tessera del partito dei lavoratori e lo stato se lo coccola, insieme a tanti altri come lui, gli ha dato anche l’attestato di gran lavoratore italiota però gli trattiene tutte le tasse sullo stipendio e gli strizza quello che può strizzare in aggiunta. Poi investe quel denaro incentivando il gioco d’azzardo, concedendo licenze a società che martellano Gnigno con pubblicità ovunque su quanto sia bello scommettere, quanto sia bello il gioco d’azzardo, perchè loro sono giocatori e ci tengono ai giocatori come loro, perchè con loro salti, esulti, vinci e vai ai caraibi in un baleno, sei circondato da strafighe in bikini e Gnigno, ormai completamente strafatto ci crede…se lo dice la TV deve essere così…è possibile…domani vincerò, me lo sento, gioco al lotto, enalotto, politic corrotto e gratta il biscotto e scopri se è cotto che farai il botto…
Povero Gnigno, lui neanche immagina che i giochi pubblici, gestiti dallo stato, sono vere e proprie truffe legalizzate, trappole dove il margine che l’amato stato trattiene non è mai al di sotto del 30%, spesso arriva al 60% e nel caso della cinquina al Lotto arriva al 90%…non a caso, infatti, il lotto veniva definito “tassa sull’ignoranza”. Non parliamo poi di bet strabet, bet a mammeta, bet a soreta, planet bet, bet sopra il let e sotto al tet, e via dicendo che non certo sono onlus che fanno beneficenza…

Gnagno è un giovane precario che ha fatto molti lavori, ne sta cercando ancora uno che gli consenta di arrivare a fine mese per pagare le spese, ha una fidanzata che ama e che ricambia il suo amore, non beve, non fuma, non gli interessa la politica, non vota, non segue il TG e non ha nemmeno la tv, non paga il canone, non guarda il calcio, legge libri di filosofia e spiritualità, ha lo stesso cellulare da 10 anni e la stessa vecchia auto da 20 e si rilassa facendo passeggiate nella natura con la sua fidanzata Gnagna. Il perfetto stereotipo, insomma, del ribelle sociale, del parassita da perseguitare, del dissociato disadattato che non riesce ad inserirsi nel gregge dell’apparato statale, un nemico della patria e della nazione.
Gnagno ha il pessimo difetto di pensare con la propria testa e non segue le mode e, sotto questo punto di vista, è più pericoloso del peggior terrorista.
Una bella domenica di primavera, Gnagno e Gnagna decidono di fare una gita al lago con la vecchia auto. Gnagna si sarebbe occupata dei panini e delle birrette mentre Gnagno avrebbe portato un libro di poesie di Baudelaire da leggere insieme ed un pò di erba da fumare per rendere ancor più piacevole la giornata.
Proprio mentre stavano per raggiungere la loro meta una pattuglia della stradale li ferma per un controllo di routine. Ecco che scoprono nel vano portaoggetti dell’auto una bustina con l’erba di Gnagno. Immediata la reazione dei rappresentanti dell’apparato statale di fronte a tale crimine tremendo. Sequestro, segnalazione all’autorità giudiziaria, processo, alcol test, droga test, pippa test e programma di recupero obbligatorio in centri specializzati per due giovinastri scapestrati chiare vittime della dipendenza da stupefacenti perchè è risaputo che la droga crea forte dipendenza, annebbia il cervello e ti spinge a commettere le peggiori nefandezze. Giustizia è fatta!
La gita ormai era rovinata ma Gnagno e Gnagna, consapevoli della situazione del paese in cui vivevano, non se la presero più di tanto, tornarono a casa e fecero l’amore fumandosi l’erba che era rimasta a casa per consolarsi.
Mentre erano a letto abbracciati, sentirono le solite urla dall’appartamento a fianco, quello del signor Gnigno che urlava all’indirizzo di qualcuno in televisione a tutto volume ed appellava con epiteti irripetibili la propria moglie mentre i figli piangevano…chissà perchè…è una così brava persona…

Una favola…

Riposto una storiella banale che avevo già scritto agli albori del mio blog…mi è capitato di rileggerla e mi va di ripostarla..

Nel regno di Gaianaku i cittadini godevano di una certa ricchezza dovuta alla bontà e munificenza del loro re, il quale non vessava la gente con tasse e balzelli ma permetteva che tenessero per loro la maggior parte dei raccolti e delle loro ricchezze.
L’agio dei cittadini di Gaianaku era unico rispetto a quello dei regni vicini che dovevano invece sottostare a tiranni ingordi e disinteressati al benessere dei loro sudditi.
Un giorno il giovane Hermes, giunto con suo padre al mercato di Gaianaku da uno dei regni confinanti per vendere i loro miseri prodotti, sperando di ottenere un prezzo migliore, rimase molto colpito dalla bellezza del villaggio, delle sue case e dei vestiti dei suoi abitanti che vedeva per la prima volta nella sua vita. Hermes non conosceva il sentimento dell’invidia, ma sapeva apprezzare la bellezza e tutto in quel posto gli sembrava meraviglioso, tanto che la sua mente priva di malignità lo portò a pensare che anche la gente del villaggio dovesse essere altrettanto meravigliosa.
In una delle poche pause dal lavoro si sedette su di un muretto a mangiare una mela e si trovò a fare conoscenza con dei suoi coetanei che stazionavano li vicino a chiacchierare tra di loro, mangiando succulenti panini con la carne che si guardarono bene dall’offrirgli. All’inizio li trovò simpatici ed incuriositi per quello straniero così diverso da loro ma presto iniziarono a fargli domande su chi era, da dove venisse e ciò che possedeva, come se quello fosse tutto quello che gli interessava sapere. La povertà di Hermes fece cambiare atteggiamento ai ragazzi che iniziarono a schernirlo ed a definirlo “barbone” e “pezzente” prendendosi gioco di lui.
In quel momento un cane, in condizioni davvero penose, passò loro accanto, così magro che sembrava non mangiasse da giorni e quando si avvicinò al gruppo, malgrado l’odore della carne lo avesse attratto, si avvicinò ad Hermes che non potè che dividere metà della sua mela con la sventurata bestiolina.
I ragazzi iniziarono a ridere sguaiatamente tirando pietre alla povera bestia, urlando che un pulcioso aveva riconosciuto subito un suo simile e che insieme facevano certamente una bella coppia. Hermes si frappose tra la povera bestiola e quei ragazzi, trascinandola via con se fino ad arrivare al carretto di suo padre. Il genitore, appena vide il cane, inveì a sua volta contro Hermes urlando che non voleva quel sacco di pulci accanto al suo carro e che nessuno si sarebbe avvicinato a comprare le sue merci con quella bestia li vicino.
Hermes si perse negli occhi teneri ed imploranti di quello sfortunato cane dicendo al padre che non lo avrebbe abbandonato e che sarebbe rimasto con lui.
Allontanatosi con il cane che lo seguiva, si trovò ad attraversare le strade del villaggio mentre la gente si scansava al loro passaggio tirando bucce di patate ed ogni tipo di immondizia, deridendoli e chiedendosi ad alta voce chi avesse più pulci, se lui o il cane…
Hermes aveva solo seguito il suo cuore ed aiutato una creatura in difficoltà e, per questo, si trovava ad essere deriso e messo ai margini di quella opulenta società. Improvvisamente si trovò a riflettere come tutta quella felicità e quel benessere avessero inaridito l’animo delle persone e quel posto non gli appariva più il paradiso che aveva creduto che fosse.
Proprio in quel momento, mentre evitava l’ennesima pietra che gli lanciavano contro, udì l’avvicinarsi di una carrozza trainata da una schiera di cavalli bianchi e subito si fece da parte avvicinando a sè la povera bestiola.
Giunta alla sua altezza, la carrozza improvvisamente si fermò ed Hermes notò che tutti quelli che fino a poco tempo prima stavano insultandolo e lanciandogli oggetti, si inchinarono. Dalla carrozza ne discese quello che doveva essere il re, seguito da una misteriosa e bellissima fanciulla dall’aria molto triste. Il sovrano e la ragazza venivano proprio nella sua direzione ed Hermes ritenne che fosse opportuno inchinarsi al re ed a quella che, con ogni probabilità era sua figlia la principessa. Notò anche che il suo nuovo amico a quattro zampe stava dimenando la coda alla vista della ragazza che stava venendo loro incontro.
“Angel!” gridò la ragazza appena vide il cane, correndogli incontro ed abbracciandolo. La bellissima ragazza sembrò aver ritrovato un sorriso che doveva aver perso da tempo mentre ricopriva di baci il cane.
A quel punto avvenne una cosa strana. Sembrò che la bestiola stesse comunicando alla principessa che quell’incontro e la sua salvezza fossero dipesi da quel giovane male in arnese che il cane continuava a guardare.
“Come ti chiami, giovane straniero?” chiese ad Hermes la principessa.
“Hermes, vostra altezza. Sono venuto dal vicino regno di Soul per vendere con mio padre le nostre merci. Qui è tutto meraviglioso e ricco, ma l’unico amico che ho trovato è stato lui” fece indicando il cane.
“Se vorrai, giovane Hermes” disse il re intromettendosi nel discorso, “sarò felice di averti ospite d’onore a palazzo dove potrai avere un buon lavoro e tutte le ricchezze ed i privilegi che desideri perchè grazie a te mia figlia ha ritrovato il sorriso”.
Il ragazzo accettò volentieri, riflettendo sul morale di quella strana storia: La strada verso il paradiso passa attraverso l’amore per qualunque forma di vita bisognosa d’affetto piuttosto che nella ricerca affannosa dell’inutile riconoscimento sociale.

Ciccio il riccio

Una bella serata di primavera, in una radura, al bar della quercia caduta, gli animali del bosco stavano discutendo dell’organizzazione di un party per celebrare l’inizio della bella stagione con danze e balli in quel largo spazio nascosto nel bosco delle 7 querce.

Zazà la volpe si propose subito come organizzatrice dicendo che avrebbe pensato lei a tutto facendo pagare un certo prezzo per i biglietti di invito, ma tutti gli altri animali, visti i precedenti di creste e maneggi vari che Zazà aveva fatto in precedenza, presentandosi con bosko cola sgasata e pasticcini rubati al discount, decisero che ognuno avrebbe portato qualcosa e la festa sarebbe stata ad ingresso libero…così le dissero di portare solo l’uva.

Tino lo scoiattolo avrebbe fatto preparare alla sua dolce metà dolci di mandorle e ghiande, Gegè la marmotta avrebbe pensato alla frutta con more, mirtilli ed altri frutti di bosco, Mimmo il cervo e Nico il daino ad insalata e pinzimoni, mentre Mario l’orso e Alberto il lupo avrebbero pensato a salsicce e prosciutti. Le bevande sarebbero state appannaggio di Teodoro il castoro che aveva un laboratorio clandestino di whisky ed acquavite sotto la sua diga sul fiume, oltre ad una discreta scorta di casse di birra.

La sera prefissata, Albertino il tasso, nel giro chiamato “il puttaniere” perchè pagava le tasse, montò il suo impianto stereo con l’aiuto di un coro di cicale che lo avrebbero accompagnato dal vivo nell’occasione.

Sotto l’effetto dei drink di Teodoro ben presto la festa entrò nel vivo. Pasquale il cinghiale faceva a gara con Mario l’orso a chi ballava più goffamente, mentre Selene la talpa andava a sbattere continuamente contro tutti e continuava ad invitare a ballare alberelli e cespugli non riuscendo a scorgere la differenza con gli altri invitati.

Luciano l’alce si era messo in disparte, affranto dall’ennesima storia d’amore finita male con una daina dalle curve mozzafiato che però gli aveva piazzato un paio di corna esagerate…era un vizio di famiglia…

Quando Tonino il gufo, guardando il cielo, disse che secondo lui stava per piovere gli arrivò dritta sul becco una ghianda tiratagli da Mirna la lince che gli urlò di non fare il solito menagramo.

In un angolo della radura stava, con un’aria molto triste, Ciccio il riccio, il quale non riusciva ad inserirsi nel clima di divertimento come avrebbe voluto. Con i suoi aculei non gli si avvicinava nessuno, aveva già distrutto un numero considerevole di piatti e bicchieri di plastica ed inoltre aveva bucato quasi tutti i palloncini che erano stati messi per la festa, tanto che ad ogni mossa o passo di danza ne esplodeva uno e tutti dovevano correre a nascondersi pensando che ci fosse qualche cacciatore nei paraggi.

Aveva provato ad invitare una bella leprotta a ballare qualche lento ma dopo la prima puntura lei si era allontanata di corsa. Persino Selene la talpa aveva rifiutato di ballare con lui, per cui il povero Ciccio era lì a rimuginare su cosa fosse passato per la testa del creatore per avergli fatto un fisico simile.

Ad un certo punto notò, al buffet, una splendida riccia che stava mangiando i lamponi portati da Gegè la marmotta e siccome pareva avesse sbevazzato qualche cocktail della cambusa di Teodoro, si stava divertendo a lanciarli in aria cercando di prenderli al volo con la bocca. Naturalmente ne centrava uno su dieci e gli altri si andavano ad infilzare sui suoi aculei che erano per questo motivo diventati di un fantastico rosso.

Ciccio ne restò colpito e si avvicinò alla bella riccia, deciso a fare la sua conoscenza. Nell’avvicinarsi a lei graffiò Casimiro il ghiro che stava beatamente ronfando seduto su un tronco e che gli lanciò una serie di bestemmione che avrebbero fatto impallidire un ultrà dell’Atalanta oltre ad una salsiccia che gli si infilzò tra gli aculei delle parti basse. Dal momento che non aveva intenzione di presentarsi alla bella riccia con un look alla Riccio Siffredi con quella salsiccia posticcia, chiese ad Alberto lupo di togliergliela e quest’ultimo acconsentì, estirpandogli però anche l’aculeo nel quale si era infilzata divorandola in un boccone stile spiedino.

Libero dall’appendice posticcia, Ciccio si spruzzò un pò di eau de sottobosque…che portava sempre con sè e si avvicinò alla bella riccia che stava continuando a ricoprirsi di lamponi. Al lancio dell’ultimo in aria, le si avvicinò tanto che il frutto andò dritto nella bocca di Ciccio che lo masticò con gusto offrendo alla riccia uno sguardo languido e compiaciuto.

“Come ti chiami?” Le chiese.

“Rossella” rispose la riccia.

“Un nome che ti si addice molto, vuoi ballare?”

Con l’eleganza tipica del riccio, Ciccio la portò al centro della pista ed i loro aculei si intrecciarono dolcemente mentre partivano le note di “starway to heaven”…

Morale: anche se vivi una vita da solo, e ti sembra di essere fuori posto quando tutti intorno a te si divertono, ci sono momenti in cui è dolce anche stare sulle spine se c’è qualcuno con cui condividerlo…

 

 

L’angelo

Tutti erano convinti che Bosa fosse una bambina dalla fantasia molto vivida. Alla sua età nessuno faceva caso al fatto che ella parlasse con un amico immaginario, che ci giocasse insieme e che gli chiedesse consigli su come comportarsi. Il papà e la mamma di Bosa erano sempre molto impegnati nel loro lavoro ed in molte altre attività, sportive o di società… Bosa era comunque molto amata e poteva chiedere ciò che voleva, cose materiali, giocattoli, e loro le concedevano tutto, ma non era proprio tutto quello che la bambina desiderava.

“Avere tanto tempo con me stessa mi fa essere attenta a ciò che ho dentro e ciò che c’è fuori”, pensava. Mamma e papà non hanno tempo e non si soffermano molto su ciò che li circonda, figuriamoci se fanno abbastanza caso a quello che hanno dentro.

Miyo era il suo angelo custode, lui c’era sempre, le stava accanto, ci giocava, le parlava e Bosa una volta gli chiese: “Anche i miei genitori hanno amici personali come te con cui parlare?” “Certo” rispose Miyo, “Tanto tempo fa ci parlavano anche, ma si sono dimenticati di loro e adesso neanche li vedono più, ma essi sono sempre con loro”.

Un bel giorno di primavera, rientrando a casa da sola perché la mamma aveva un impegno importante e non poteva andare a prenderla, Bosa si fermò ad osservare per strada un barbone che, seduto su una cassetta di frutta, ascoltava da una vecchia radio una dolcissima musica classica. Bosa chiese a Miyo, sempre accanto a lei: “Come mai c’è tanta infelicità nel mondo?” Miyo rispose: “Perché credi che quell’uomo sia infelice, Bosa? solo perché gli basta poco per sorridere e vive per strada?”

Il barbone, accortosi di loro, fece un cenno di saluto, strizzando l’occhio a Miyo che rispose al gesto.

“Lui può vederti?” chiese a quel punto Bosa meravigliata. “Certo, i suoi occhi non hanno mai smesso di osservare la vita”, fu la risposta di Miyo. “Lui ha solo scelto di essere veramente libero al di fuori di ogni convenzione”.

“Starai sempre con me?” chiese la bambina a Miyo a quel punto. “Io sarò sempre con te, piccola mia e guiderò i tuoi passi” rispose il suo amico “invisibile”.

“E potrò parlarti sempre, tutte le volte che ne avrò bisogno?”, incalzò la bambina.

Miyo rispose con un sorriso di compassione: “Questo dipenderà da te, se sceglierai di continuare ad avere occhi per vedermi”.