Month: novembre 2014

Il mio miglior nemico

Non ho nemici, almeno non credo. Come qualcuno ha già detto, sono responsabile di ciò che dico e faccio, ma non lo sono delle interpretazioni che gli altri danno ai miei gesti ed alle mie parole.

Mi sono sempre sforzato di non far del male a nessuno e quando ci sono stato proprio costretto per una questione di “legittima difesa”, ho cercato, anche a costo di sacrifici, di limitare i danni.

Quindi credo di non avere nemici nel vero senso della parola. Forse ho deluso qualcuno, ma nemici no. Almeno non nel senso che c’è qualcuno che mi vuole morto.

Bè, a ben vedere un nemico ce l’ho, il peggiore dei nemici, la mia nemesi, quello con cui combattere la più sanguinosa delle battaglie, il giustiziere dei giustizieri, il samurai invincibile: me stesso.

E’ una vita che sto cercando di farmelo amico, di parlarci, di condividere i sogni, di capirlo ed accompagnarlo dove vuole andare. E’ difficile, quasi impossibile. A volte non mi riconosco, mi sorprendo da me, quindi mi viene da pensare: se non mi riconosco io stesso come posso sperare che mi capiscano gli altri?

E, se razionalizzi questo concetto, non badi più al giudizio della gente, sai che comunque non può essere che fallace, non puoi prendertela perchè ti criticano per i capelli lunghi, i vestiti strani o i numerosi tatuaggi…non sai neanche tu perchè li hai fatti. Ti piacevano e tanto basta.

E quel desiderio che non conosci, ma che ti porta verso mete sconosciute, non sai spiegartelo neanche tu, ma c’è e lo segui.

Qui c’è da fare un distinguo. Ti fai un tatuaggio o ti tingi i capelli di blu perchè lo fanno tutti o perchè ti piace e te ne fotti del giudizio degli altri? Nel primo caso dovresti rivedere qualcosa. Ti stai lasciando trascinare da una corrente che non è la tua e che ti porterà laddove un giorno non ti piacerà essere arrivato. Allora o torni indietro oppure ti abbandoni alla corrente e rinunci ad essere te stesso. Nel secondo caso allora chiediti il perchè. Perchè ti piacciono i capelli blu o quel gigantesco tatuaggio di un gabbiano sulla schiena?

Ed ecco che ti trovi di fronte, nella sua cruda realtà, il tuo miglior nemico: quel qualcosa che ti spinge a compiere dei gesti di cui dubiti la correttezza ma che ti piace fare.

Allora lo affronti, gli chiedi: “Perchè?”. Non ti risponderà mai, ti sorriderà e ti spingerà a riflettere, ma dovrai scoprirlo da solo.

Poi ci sono delle volte in cui mi darei una pacca sulla schiena, altre volte in cui non mi sopporto proprio. Ma non riesco ad essere abbastanza soddisfatto nel primo caso e non riesco ad odiarmi nel secondo. Insomma un vero casino.

Mille volte mi sono ripromesso di fare o non fare una determinata cosa, mangiare meglio, smettere di fumare, avere una vita più regolare, non bestemmiare, non desiderare la donna d’altri…anzi no, le ultime due fanno parte di un decalogo troppo antico quindi non le ho mai sentite mie. Ma quelle che ho sentito mie invece non sono riuscito a metterle in pratica fino in fondo, inizio ma poi mi tradisco. Ma si può essere più idioti ed inaffidabili? Un giorno sono irremovibile ed il giorno dopo faccio esattamente il contrario di quello che mi ero fermamente riproposto. Non vi fidate di me, mai. Se riesco a fregare me stesso immaginate cosa potrei fare a voi.

Un nemico, se non lo puoi battere, cerchi almeno di evitarlo, ognuno per la sua strada. Ma come posso prendere una strada diversa da quella che mi sono scelto io stesso?

Se fosse possibile mi prenderei un pò di ferie da me stesso, ogni volta una silenziosa discussione col mio miglior nemico, specie quando si tratta di scelte importanti. Fallo! No, anzi, rifletti…forse non è la scelta migliore….ma si, dai, buttati! E se poi…

Eh no, basta, quando fa così proprio non lo sopporto il mio miglior nemico. ma perchè continui a mettermi in testa dei dubbi? Se ho deciso che è così, così sarà! Mmmmm…sei sicuro? ma chi comanda qui? Io o tu? E chi sono io? E chi sei tu?

Quasi sarebbero da preferire gli ordini imposti, almeno non li si può discutere anche se sono i più stupidi del mondo. Lo devo fare, quindi non rompere! Ma è possibile che per andare d’accordo io e te, devo ubriacarmi?

Io mi vedo come unico, tutti ci vediamo come unici, ma non ci rendiamo conto che in noi vivono tante personalità? E non tutte ci piacciono…il Dottor Jekyll ne sapeva qualcosa. “Oggi mi sento triste”, oppure “oggi mi sembri radioso”, “oggi non ho voglia di fare nulla”, “oggi ho un sonno pazzesco” e così via all’infinito. Quindi c’è il me triste, quello allegro, quello stanco, affamato, incazzato…oddìo allora quanti nemici ho? Stai a vedere che ne ho più dentro che fuori.

Ma, dopo tutto questo tempo a litigarci, ho capito una cosa: che riusciremo a ritrovare noi stessi soltanto quando avremo messo pace tra noi ed il nostro miglior nemico, perchè lui è li per insegnarti qualcosa che non si impara a scuola nè da nessun altra parte, qualcosa che lui sa e che sta a te scoprire. E se sei in pace con lui, sei in pace col mondo.

La straordinaria storia di una foca

Al quinto giorno della faticosa creazione della Terra e di tutti gli esseri che l’avrebbero abitata, Dio si trovò a dover organizzare la dislocazione delle sue creature, come se dovesse appiccicare le figurine su un album completamente vuoto. Si convinse che un compito del genere poteva essere affidato ad un software del suo computer che aveva appositamente creato con il simbolo del primo frutto da Lui ideato, la mela, che però quell’ingordo imbecille di Adamo aveva morsicato malgrado il suo espresso divieto, sobillato dalla sua dolce metà, tale Eva che fin da subito gli stava creando problemi di ordine e disciplina. Si appuntò che avrebbe dovuto correggere quelle sbavature creative, ma in seguito gli passò di mente.

Guardò con disappunto il suo PC con la mela morsicata e studiò un’app che sistemasse tutti gli esseri viventi nelle zone del globo più adeguate alle loro caratteristiche.

Sarebbe bastato inserire il nome e la foto di ogni singolo essere nel riquadro dell’app, che ribattezzò “Animal house”, per ottenere la zona più appropriata in cui far nascere i primi esemplari di quella specie.

Ai suoi esseri prediletti, uomo e donna, aveva riservato un posto privilegiato nel resort a 5 galassie extralusso che aveva chiamato “Eden”, da cui aveva bandito i due maggiori flagelli, le malattie e la politica, ma la loro bravata d’esordio alla sua mela lo aveva fatto veramente incazzare, al punto che si era riproposto, per i prossimi 20 milioni di anni, di non farli mai più entrare e di sistemarli invece sul pianeta insieme a tutti gli altri, con annessi di malattie, cataclismi e politici dementi così avrebbero imparato a vivere. “Tra qualche milione di anni vediamo come si comportano e poi eventualmente deciderò se ammetterli nell’Eden”, si disse (da fonti autorevoli si è venuto a sapere che, in base alla situazione attuale, ciò non avverrà mai).

Volendo comunque mettere alla prova le loro abilità in condizioni differenti, sparse gli uomini un pò a caso su tutto il globo, mandando quelli dalla carnagione più chiara nei posti con poco sole e quelli dalla pelle più scura laddove il sole batteva implacabile tutto l’anno, in modo tale che l’abbronzatura non diventasse uno status symbol e si sentissero tutti uguali, per il resto si sarebbero arrangiati.

Poi prese ad inserire i dati di tutti gli animali nell’app “animal house” e distribuì questi ultimi in base alle zone in cui le loro caratteristiche avrebbero trovato facile adattamento per la sopravvivenza.

Non si accorse che, per un bug nel programma, la foca, la quale avrebbe dovuto essere mandata principalmente ai poli per le sue evidenti caratteristiche, venne invece spedita in Africa.

Subito la foca si rese conto che qualcosa non andava. Quasi tutti gli animali che vedeva intorno avevano lunghe zampe con cui correvano come matti, chi inseguiva e chi era inseguito, uno in particolare la stupì. Aveva il collo così lungo che la foca, che invece il collo non lo aveva neanche, non riusciva neanche a vedere dov’era la testa…pensava che avesse la testa fra le nuvole. Poi si rese conto che a lei piaceva un sacco il pesce, ma di pesce lì intorno neanche l’ombra…poi con quel maledetto caldo si sarebbe accontentata anche soltanto dell’ombra senza il pesce.

Quindi fece di necessità virtù e si fece vegetariana. La prima volta che provò a mangiare verdure stette malissimo.

Una volta si trovò a tu per tu con un leone. Il bestione aveva un fare minaccioso ma la guardava con stupore. Lui evidentemente aveva concluso che le prede commestibili bisognava catturarle correndo, insomma il pane se lo doveva sudare, invece quella foca stava lì immobile che lo fissava coi suoi occhioni senza muoversi. Pensò che sicuramente non era buona da mangiare.

Ben presto tutti si accorsero che la foca, per quanto simpatica e carina, in quell’ambiente combinava soltanto disastri. Gli animali, nelle loro folli corse, inciampavano su di lei, o venivano schizzati dal fango quando trovava qualche pozzanghera con un pò d’acqua dove cercava di sguazzare e la intorbidiva tutta. E poi quel dannato caldo…

Un giorno decise di spingersi un pò oltre quell’ambiente inospitale ed arrivò alle porte di una missione dove una monaca la trovò che saltellava con difficoltà e visibilmente provata. La monaca realizzò che dovesse trattarsi di quell’animale strano di cui tutti parlavano nella savana, che faceva fare uno strano verso a tutti gli animali quando se la trovavano tra le zampe… “fo-ka” “fo-ka”, probabilmente era un abbreviativo per “fo kasino” e quindi la foca venne accolta nel villaggio e le venne dato il nome di Reicel.

Si trovò ben presto più a suo agio in quel nuovo contesto e tutta la gente del villaggio, principalmente i bambini, le si affezionarono moltissimo. Faceva versi buffi ed aveva doti che tutti iniziarono ad apprezzare col tempo. Aveva uno splendido carattere ed anche uno straordinario senso dell’equilibrio, dentro e fuori, infatti una volta che un bambino aveva provato a lanciarle una palla, Reicel era riuscita a tenerla sul muso immobile senza farla mai cadere, sintomo di grande intelligenza e concentrazione. Ogni bambino del villaggio voleva stare con lei a giocare e la foca trascorreva le ore con loro molto volentieri.

Un bel giorno Dio, facendo una verifica della situazione degli esseri viventi sulla Terra, si accorse di aver commesso un imperdonabile errore: aveva mandato la foca in Africa! Ma anche lui forse commise un secondo errore e rimandò la foca nel suo habitat preassegnato.

Una volta arrivata al polo la foca si rese conto di essere una delle tante, di non essere più apprezzata per le sue doti e qualità e, anche se c’era un sacco di pesce da mangiare ed acqua a volontà, faceva un pò troppo freddo per i suoi gusti. A quel caldo ci aveva ormai fatto l’abitudine. E poi non c’erano nè palle nè il sorriso dei bambini con cui giocare, niente risate, niente divertimento, la notte durava mesi interi ed il sole non scaldava. L’unica caratteristica che aveva conservato era quella di combinare casini nuotando ed andando a sbattere contro tutti quelli del branco di cui faceva parte. Poi c’erano tanti animali, in acqua e fuori che volevano mangiarsela.

La foca, quindi, ben presto finì con l’intristirsi, non si sentiva apprezzata, non riusciva a trovare un ruolo nel branco che le desse soddisfazione, quindi chiese a Dio di farla ritornare dai suoi bambini in Africa, dove aveva conosciuto la felicità e l’amore per le cose semplici.

“Ma una foca che si rispetti deve stare nel mare” disse Dio allorquando udì la supplica della sua creatura. Però, resosi conto che la foca era molto triste, nella sua benevolenza l’accontentò, e lei potè tornare finalmente a sorridere tra i suoi bimbi.

Non è detto che il luogo in cui nasci, con le regole e le comodità che vengono ritenute le migliori, sia il posto adatto a te. Il tuo posto è ovunque sorride il tuo cuore.

La ragazza dai capelli blu

Anna si alzò molto felice in quella soleggiata mattina di settembre. Quel giorno doveva riprendere la scuola ma l’estate era ancora stabilmente in sella al cavallo della stagione in corso e nel fine settimana si poteva ancora andare al mare.

Il giorno precedente, insieme alla sua migliore amica Elena, avevano deciso di effettuare un pò di cambiamenti e si erano colorate i capelli di una tinta particolare, lei blu acceso ed Elena rosso fucsia. Un modo innocente ed adolescenziale di rompere le regole, di distinguersi ed affermare una personalità in via di formazione, un modo come un altro di sperimentare nuove vie in quello che era ancora l’inizio dell’esistenza.

Si vestì scegliendo l’abbigliamento che più si adattava alle sue forme ed al suo stato d’animo, con dei colori in tinta alla sua nuova capigliatura. Non vedeva l’ora di affermare la propria identità al cospetto dei suoi compagni di classe, in quello che sarebbe stato l’anno conclusivo della sua avventura alle scuole superiori.

Sua madre l’aveva accompagnata come sempre all’ingresso della scuola, dandole un bacio prima di recarsi al lavoro e salutandola con affetto: “Ciao fata turchina, mi raccomando fai la brava!”.

Anna si diresse, con passo spigliato ed un sorriso orgoglioso, verso l’ingresso della scuola, diretta dalle suore del cuore immacolatissimo, per iniziare l’ultimo anno della sua esperienza didattica da adolescente per poi cimentarsi nel Colosseo dei “grandi”, al suo primo gradino costituito dalla facoltà universitaria che avrebbe scelto. Il suo sogno era sempre stato quello di fare il medico, quindi aveva le idee chiare; dopo la scuola superiore si sarebbe iscritta a medicina. Era il modo migliore per aiutare le persone in difficoltà garantendosi una vita abbastanza agiata, almeno era quello che sperava per il suo futuro.

Una volta nell’atrio, mentre stava dirigendosi verso l’aula assegnata per quell’anno alla sua classe, una voce risuonò imperiosa alle sue spalle mettendole una mano sulla spalla: “Dove credi di andare conciata così?”

Anna si bloccò, spaventata dal tocco non certo gentile e dalla voce che lasciava trapelare un disgusto che la sua mente non riusciva a capire.

Quando si voltò, incrociò lo sguardo sconvolto ed irato della preside, suor Giacinta, che aveva posto le mani sui fianchi alla maniera del più spavaldo attore di film western anni 30. Una specie di John Wayne in velo e tonaca. Non riusciva a comprendere l’atteggiamento che la preside della scuola aveva assunto e per un attimo si guardò i vestiti nell’infondato timore di aver dimenticato di indossare qualcosa. Jeans, scarpe, maglietta…no c’era tutto, quindi cosa voleva quella suora da lei?

“Non vorrai entrare in classe con quei capelli” biascicò l’anziana suora con veemenza, lasciando partire sui vestiti di Anna qualche gocciolina di astiosa saliva.

“Ma…ma…signora preside…io…io…veramente…cosa c’è che non va”?

“Cosa c’è che non vaaaa? Tu chiedi persino cosa c’è che non vaaaa? Ma ti sei vista nello specchio stamattina? Credi che siamo ad una festa di carnevale invece che al primo giorno in una scuola rispettabile? Mi stai prendendo anche in giro?”

Anna realizzò che il “problema” di suor Giacinta erano i suoi capelli ma non riusciva a capire come mai un colore diverso potesse aver provocato una reazione simile. In fondo non c’erano donne che da more si facevano bionde o viceversa? O magari rosse o con i colpi di sole…dov’era il problema se lei aveva scelto il blu? Non le risultava che il blu fosse fuorilegge. In fondo anche l’abito della donna era di un blu acceso, quindi suor Giacinta poteva indossare un abito blu e a lei era vietato portare i capelli dello stesso colore? Che razza di regola era? E chi l’aveva decisa?

“Adesso tu, signorina, prendi la tua sacca e te ne ritorni a casa, perchè qui, in quelle condizioni indecenti, non ci puoi rimanere nè potrai mai rientrarci se non torni normale! Mi chiedo cosa avranno detto i tuoi genitori…oppure hanno approvato questo scempio? Che mondo! Che tempi! Non c’è proprio speranza per questa gioventù scellerata…troppo permissivismo…dovrebbero raddrizzarvi tutti…che vergogna!”

Anna faticava a capire le ragioni della suora e di tutto il suo livore nei suoi confronti. Per cosa poi? Per il colore dei capelli? Che significava “ritornare normale”? Lei si sentiva normalissima, e poi conosceva il regolamento della scuola, c’era scritto che bisognava avere un abbigliamento decoroso, ma che c’entravano i capelli con l’abbigliamento? I percorsi mentali della suora ed i suoi seguivano direzioni completamente diverse, ma lei aveva gli esami quell’anno, del resto non aveva nessuna intenzione di raparsi a zero per far contenta la preside.

E poi…con i capelli rasati sarebbe stata “normale” o non l’avrebbero fatta entrare ugualmente? Pareva che ci fosse qualche strana regola che vietasse i capelli di un certo colore, ma non averli proprio? Quello si che sarebbe stato anormale. Forse se avesse messo su una parrucca coi capelli riccioluti e neri come un rasta o come Napo orso capo, alla suora sarebbero andati bene? Era un terno al lotto.

Chissà se c’era qualche regola sulle scarpe o i calzini uno diverso dall’altro, oppure sugli occhiali con una lente si ed una no, o ancora se si poteva accedere alla scuola con un sombrero in testa o con una carota nel naso. Cos’era normale per quella donna?

Anna aveva sempre preso bei voti, mai stata rimandata e in classe era benvoluta da tutti e adesso una normalità spuntata da chissà dove e decisa da chissà chi, ne aveva fatto una ragazza anormale. Che mondo! Che tempi! pensava Anna, vergognandosi subito dopo perchè si era messa sullo stesso piano della suora anche se da un’altra parte del pianeta.

Mentre la ragazzina veniva sospinta fuori dalla preside che continuava ad inveire contro di lei ed i suoi capelli blu, alzò gli occhi al cielo e vide Gesù che la osservava smagrito ed afflitto dal crocifisso in alto sulla parete di fronte. Le piacque pensare, solo per un attimo, che anche lui era mortificato per quello che stava succedendo e che la sua normalità non fosse quella della sua sedicente servitrice che adesso la stava cacciando fuori.

Perchè, e di questo era assolutamente certa, in Paradiso Lui l’avrebbe fatta entrare anche con i capelli blu.

Un libro

Leggere è un piacere che pochi si concedono. Per mancanza di tempo, ci si giustifica il più delle volte. Se si trova il tempo per nutrire il corpo si dovrebbe trovare anche quello per nutrire l’anima.
Un libro può essere giocoso, spiritoso, erotico, noioso, toccante, coinvolgente…tutti attributi che cerchiamo ed a volte troviamo anche nelle persone che incrociano la nostra vita. Ma un libro non tradisce mai. E’ quello che è, se non ti piace puoi metterlo da parte senza rancore. I libri non provano rancore. Danno ma non ti tolgono nulla.
Una persona può mentire, spesso solo per difendersi, un libro non mente mai. Puoi decidere di trascorrere una serata in un qualsiasi locale ma rischi di aver buttato via il tuo tempo. Puoi decidere di trascorrere un pomeriggio in libreria o una sera a leggere e non rischi mai.
Il peggiore dei sentimenti che può provocarti è l’indifferenza. Non si può odiare un libro. Una persona ha un volto ed un carattere mutevole, un libro ha solo un’anima ed è sempre quella.
Un libro è un mondo alternativo al mondo di ogni giorno, un oggetto che senza far troppo rumore, ci consegna realtà inimmaginabili, creando quel vuoto nel mondo reale che spesso cerchiamo troppe volte invano.
I libri hanno vita propria, credo che non siamo noi a sceglierli, ma sono loro a scegliere noi con quelle copertine ammiccanti ed i loro titoli, proprio come fanno gli abiti e l’aspetto per le persone.
Spesso non ci rendiamo conto che dietro quelle parole c’è l’animo di una persona con cui abbiamo deciso di trascorrere il nostro tempo, famosa o sconosciuta. Volete mettere la soddisfazione di poter dire di aver conosciuto Shakespeare, Omero, Dante, Dostoevskij, Pirandello o addirittura Buddha. Già, perchè un libro trascende il tempo e le distanze e ti fa entrare nel mondo migliore di persone distanti migliaia di chilometri, che parlano altre lingue o che non ci sono più da secoli o millenni. Perchè leggere un libro è sempre guardare avanti anche se stai andando indietro nel tempo, perchè la nostra esperienza comincia dove quella dell’autore finisce.
Non ha importanza ciò che leggi, un libro, se letto al momento giusto, ti sfonda l’anima e ti cambia per sempre.

Dialogo con lo specchio

Quella mattina, al suo risveglio, Beppe sentì il rumore della pioggia che batteva incessante sulle imposte chiuse della sua finestra. Mise a terra il piede destro come faceva ogni volta in una specie di strano rituale automatico che lo accompagnava da…quando? Boh, neanche lui ormai se lo ricordava più. Era una di quelle tante, piccole cose che facevano parte del suo essere, il suo codice di riconoscimento che, insieme a tutte le altre manie e pensieri, lo rendeva unico e diverso dagli altri ma alla stessa maniera troppo uguale.
Ancora assonnato si trascinò in bagno, aprendo il rubinetto rosso dell’acqua calda, appoggiando le mani al bordo del lavabo con la testa ancora abbassata e gli occhi chiusi nell’attesa che il flusso dell’acqua raggiungesse la confortevole temperatura necessaria per cominciare la giornata e stabilire i contatti col mondo esterno in quella fredda mattina di febbraio.
Finalmente si decise a sollevare la testa ed aprire gli occhi per guardare il suo viso nello specchio, nei confronti del quale non si vergognava affatto a mostrarsi nelle condizioni border line del risveglio.
Quello che vide lo stupì a tal punto che si lasciò sfuggire un grido strozzato facendo un balzo all’indietro. La sua immagine riflessa lo stava fissando sorridendo. Beppe era consapevole che non c’era proprio nulla da ridere in un lunedì mattina come quello, con una settimana di lavoro stressante che lo attendeva, le vacanze lontanissime, un dolore alla schiena che lo affliggeva da un pò di giorni ed un tempo da cani là fuori pronto a fare da drammatico contorno alla coda in tangenziale che lo avrebbe aspettato di lì a poco.
Beppe richiuse gli occhi ed iniziò a stropicciarseli con veemenza, pensando che fosse uno strano effetto ottico dovuto al fatto che era ancora assonnato e non ben connesso col mondo reale.
Poi, con gli occhi ancora chiusi, si lavò la faccia più volte, allungando le mani sulla sua sinistra per prendere a memoria l’asciugamani e passarselo sul viso. Solo allora riaprì gli occhi lentamente aspettandosi logicamente che lo specchio gli restituisse l’immagine di lui che si passava l’asciugamani.
Ma non fu così. Il suo volto nello specchio era ancora lì che sorrideva. Stavolta, strano a dirsi, Beppe non ebbe la reazione di stupore e quasi paura avuta un attimo prima ma fissò immobile quel volto fin troppo familiare con un’espressione allegra.
“Ma…ma…tu chi sei?” Nel momento esatto in cui l’ebbe pronunciata, quella domanda gli sembrò la più stupida del mondo.
“Chi vuoi che sia?” rispose ironico il Beppe nello specchio, “Sono Beppe”.
“Ma come è possibile tutto questo?…cioè tu dovresti fare quello che faccio io e non stare immobile lì a sorridere mentre io mi sto asciugando la faccia”.
“E questo chi lo avrebbe deciso?” gli chiese l’immagine.
Quella semplice domanda a Beppe sembrò facesse il paio con la stupidità della sua d’esordio in quel dialogo che definire folle era un eufemismo. Però, in effetti, a pensarci bene, non aveva una risposta pronta e disse: “perchè tutti gli specchi riflettono le immagini identiche”.
“Ah bè…qui ti sbagli di grosso mio caro. Ciò che vedi nello specchio è l’esatto contrario di quello che vi è riflesso, quindi tu stamattina sei triste, invece io sorrido”.
La sua mente era incapace di reagire, era come se tutto ciò in cui riteneva di aver creduto fosse stato spazzato via nel giro di un secondo…ed a pensarci bene c’era anche una nota di sarcasmo nella verità che la sua immagine stava descrivendo dall’altra parte dello specchio.
In quel momento Beppe, cercando uno sprazzo di razionalità quando tutto attorno a lui cospirava per fargliela perdere, si aggrappò ad un pensiero che poteva essere la soluzione all’assurdità di quella vicenda. Stava ancora sognando. In effetti non si era mai risvegliato e quel dialogo surreale stava avvenendo mentre lui era ancora disteso nel letto, profondamente addormentato…” e magari fuori c’è anche il sole”.
Quell’idea gli diede un pò di spavalderia, ma…il freddo delle piastrelle sotto i suoi piedi nudi, l’umidità dell’asciugamano che ancora stringeva tra le mani, il suono della sirena di un’ambulanza che passava in quel momento, tutto gli fece capire che era ben sveglio e tutto ciò che stava accadendo era la realtà, o meglio quella che lui credeva fosse la realtà. Darsi uno schiaffo o tirarsi un pizzicotto non avrebbe fatto che confermare il tutto.
“Cosa significa tutto questo?” azzardò a chiedere Beppe alla sua immagine riflessa.
“Significa che tu non accetti che possano esistere altre realtà diverse da quella che la tua mente riesce a concepire. Continui a vivere la tua vita sempre sugli stessi modelli e ti aspetti che qualcosa cambi e invece non cambia mai nulla. Ti sei mai chiesto il perchè?. Oggi io (che sono sempre Beppe) voglio offrirti una visione della vita diversa da quella che sei abituato a vivere, anzi, completamente opposta, come da specchio che si rispetti. Ti sei sempre posto davanti allo specchio per ottenere inconsciamente una risposta visiva alla domanda fondamentale che caratterizza un essere umano: “Chi sono io?”. Ti sei mai chiesto se anche gli altri vedono dal vivo la stessa persona che tu sei abituato a guardare nel tuo specchio? Oppure tu vedi solo quello che riflette il tuo stato d’animo in quel preciso momento? Dimmi un pò, non ti capita a volte di vederti brutto e grasso mentre altre volte ti piaci particolarmente? Credi che dipenda dallo specchio? Non è cambiato nulla da un giorno all’altro, solo cambia l’immagine che hai tu del mondo, te stesso compreso. Non ci fai mai caso, non ci rifletti abbastanza. Vivi la tua vita preconfezionata senza dedicarti un momento a quegli interrogativi che invece hanno un’importanza fondamentale. Perchè? Perchè se indugi su quei pensieri ti senti un pò matto. Non lo fai, non ne parli con gli altri, il pensiero ti sfiora ma poi ti chiedi: cosa penserebbero di me se parlassi di certi argomenti? Quindi eccomi qui per farti capire che oltre la monotona vita di tutti i giorni c’è anche un’esistenza allo specchio che aspetta solo di essere vissuta, e fanculo le opinioni degli altri, ognuno ti vedrà diverso da come vuoi apparire, quindi a che serve cercare di essere qualcosa di definito? Sii felice di come sei, come lo sono io…che poi sono te…solo che tu ancora non te ne rendi conto.”
A quel punto a Beppe cadde l’asciugamani sul pavimento, si chinò a raccoglierlo e quando si rialzò vide la sua immagine riflessa con un’espressione attonita e l’asciugamani in mano.
Fece colazione, si vestì ed uscì di casa.
Quel giorno, malgrado la pioggia, il fatto che fosse lunedì e che ci fosse un traffico infernale in tangenziale, Beppe si ritrovò a sorridere allo specchietto retrovisore della sua automobile.

Grazie!

Grazie. Una parola che usiamo sempre troppo poco e che invece dovremmo ripetere in continuazione, perché c’è sempre qualcosa o qualcuno da ringraziare ogni minuto della nostra vita.

Grazie al destino (chiamiamolo così) che ha voluto che oggi io sia ancora qui. Il tempo, una volta che ti ha agganciato alla nascita, ti trascina via, facendoti incontrare cose belle ed altre meno belle, il tutto comunque sulla mia personale corsia che si intreccia con gli innumerevoli incroci delle vie del tempo di tanti altri, i quali hanno comunque lasciato in me un segno, un ricordo. A volte istantaneo e subito scivolato via nel pozzo senza fondo dell’oblio ed altre volte profondo ed incancellabile, a prescindere da quanto ci siano stati vicino. Amicizia, amore o affetto non hanno il tempo come unità di misura. Ho parlato per anni con persone di cui ricordo a malapena volto e gesti ed ho invece impressi nel cuore voce, viso e parole di persone incrociate per pochissimo e mai più riviste. Grazie anche a tutti loro per aver reso più ricca la mia vita anche se non lo sapranno mai. Da cosa dipende? Io lo chiamo il linguaggio dell’anima. Questi linguaggi, in alcune persone non li comprendo, in altri li capisco anche senza le parole, e non c’è cosa più stupefacente di due persone che comunicano senza parlare. Credo abbia ragione chi una volta ha detto che la parola ci è stata data per nascondere le nostre emozioni. Ma ci sono persone cui non possiamo nascondere nulla.

Grazie a tutti coloro che mi hanno dedicato anche un solo istante della loro vita, con un pensiero, una parola, una frase, un consiglio, un augurio, un incoraggiamento, una stretta di mano o un aiuto concreto. Siamo sempre contenti quando succede ma non riusciamo mai a compensarlo con tutte le volte che siamo noi ad offrire qualcosa agli altri, sicchè è sempre quest’ultimo aspetto che, solo, ci appare nel bilancio della nostra mente la quale inevitabilmente ci porta a considerarci sempre in credito con l’umanità quando invece non è quasi mai così.

Grazie a tutti quelli che mi hanno anche pesantemente criticato, condannando alcuni miei comportamenti nei confronti loro o di altri. Comunque mi hanno spinto a riflettere, a guardare dentro di me, cosa che raramente ci accade, a processare i miei pensieri per arrivare a concludere che spesso avevano anche ragione. Gesti e parole sono per metà di chi li compie e per metà di chi li subisce. Noi vediamo solo il nostro 50% ignorando completamente l’altra metà.

Grazie ai miei genitori, che mi hanno dato tutto ciò che potevano, anche se quel tutto non era forse quello di cui avevo bisogno, ma erano mossi dal più puro dei sentimenti e l’ho capito solo col tempo.

Grazie a chi mi ha insegnato quello che ora so, a chi ha contribuito alla mia esperienza personale, culturale ed affettiva. Il sapere è frazionato tra tutti quanti e non è detto che un bambino non abbia qualcosa di importante da insegnare ad un premio nobel.

Grazie anche a tutti quelli che, per chissà quale ragione, non ho mai conosciuto abbastanza e tra i quali mi piace sempre fantasticare che ci sarebbero state altre grandi amicizie e grandi amori.

Una favola moderna

Nel paese di Belgioioso vivevano due vicini di casa molto diversi tra loro. Il signor Massimo Cicala ed il signor Aurelio Formica, coetanei ed entrambi single.

Massimo viveva una vita molto godereccia, amava dare feste, ascoltare musica ad alto volume, bere buon vino, accompagnarsi a molte donne e vivere notti brave, finendo per alzarsi tardi al mattino, forse con un pò di mal di testa ma sempre con un gran sorriso sulle labbra ed una gran voglia di vivere la sua vita così come se l’era scelta. Aurelio lavorava dalla mattina alla sera, non si concedeva distrazioni, sempre attento al cibo, non fumava, non beveva, insomma nessun vizio ed una vita ordinata aspettando la donna della sua vita con cui mettere su famiglia. Forse li accomunava solo il mal di testa al mattino, ma per il resto non potevano avere uno stile di vita più diverso.

Quelle volte che si incontravano al bar sotto casa, Aurelio rimproverava il modo di vivere di Massimo: “Non condivido proprio il tuo stile di vita, è del tutto irrazionale, quando sarai vecchio, se ci arriverai, te ne pentirai, non pensi proprio al tuo futuro”.

“E’ vero”, rispondeva Massimo, “forse un domani sarò malato, solo ed infelice ma sto agendo in modo del tutto razionale. Per me, essere razionale significa essere felice e la mia felicità coincide con l’attimo presente che supera ogni possibile dolore futuro”.

“Sbagli”, rispondeva Aurelio, “la felicità va vista in prospettiva futura e va spalmata su tutta la tua esistenza. Certo, io oggi so che mi privo di qualcosa, ma so che verrò ripagato, che è giusto quello che faccio e quindi investo sul mio lungo futuro”.

Dopo qualche anno Massimo si ammalò e chiese aiuto ad Aurelio, affinchè gli portasse cibo, acqua e medicine, dato che faceva difficoltà anche solo a salire le scale.

Aurelio nel frattempo si era trasferito ed aveva messo su famiglia, per cui declinò la richiesta di Massimo. “Venire a portarti acqua e cibo ogni giorno sottrarrebbe tempo alla mia vita e non posso preferire il tuo benessere al mio. Ma non ti senti adesso in colpa per aver vissuto così dissennatamente? Stai pagando il tuo stile di vita, così come avevo previsto.”

“Certo!” rispose Massimo, “infatti ne sono sempre stato consapevole, ma adesso è adesso ed all’epoca ho agito in modo razionale. Tu invece mi stai rifiutando un aiuto e questo non è molto razionale”.

“L’adesso per me è tutta la vita” rispose Aurelio, ma conosco una maga potentissima che potrebbe prepararti una pozione che ti regalerebbe un anno in perfetta salute. Ma sappi che questa pozione dura solo un anno, dopo di che le tue condizioni si aggraveranno molto di più di quanto non lo siano adesso”. Io non lo farei…

Massimo non esitò un solo istante, ottenne l’indirizzo della maga e si fece subito preparare la misteriosa pozione che lo riportò in salute e gli consentì di riprendere la vita beata che aveva vissuto fino a quel momento che egli cercò quanto più possibile di intensificare.

Dopo un anno esatto Aurelio si ritrovò al capezzale di Massimo ormai gravemente ammalato e quasi agonizzante, chiedendogli: “Ne valeva davvero la pena?”

Massimo, in preda a forti dolori, rispose: “Adesso no di certo, ma prima valeva la pena eccome!”

Aurelio disse a Massimo che conosceva un bravo medico che avrebbe potuto salvarlo ma la cura lo avrebbe reso praticamente immobile e trasformato in un invalido.

“Ah no”, rispose Massimo, “non ho mai investito sul futuro e mai potrei farlo a simili condizioni. Addio!” Massimo morì ed Aurelio visse sino 100 anni un’esistenza grigia, evitando occasioni di felicità che avrebbero potuto trasformarsi in infelicità future.

In punto di morte, Aurelio pensò proprio a Massimo e realizzò in quel momento che, rinunciare nell’immediato a ciò che vogliamo e sentiamo, per costruire un futuro del tutto ipotetico, equivale forse a rinunciare ad esistere.

Il primo sorso di birra

Tra i misteri della nostra natura di esseri umani, ai primi posti c’è quello del gusto per la novità, che tende a scalzare quello che abbiamo già e che, dopo un po’, inevitabilmente ci stanca. In questo restiamo sempre bambini. Provate a dare ad un bambino un giocattolo, lascerà tutto quanto per averlo, tutto passa per lui in secondo piano, il cibo, i genitori, tutto. Lo prende, lo analizza, cerca di scoprire tutti i segreti del nuovo oggetto del suo desiderio, all’inizio lo tratta bene, ci gioca facendo attenzione a non romperlo, trova mille utilizzi per una cosa che spesso non ne ha alcuno, poi, inevitabilmente si stufa ed inizia a trattarlo male, spesso lo rompe sperando di trovarci dentro qualcosa che la sua curiosità non ha ancora scoperto. Alla fine, deluso, lo butta via e non lo degna più di uno sguardo. Avanti il prossimo, arriverà un nuovo gioco con cui ripetere la stessa esperienza.

Noi adulti non siamo molto diversi, in questo non siamo mai cresciuti. Il guaio è che, oltre che con gli oggetti, da grandi facciamo lo stesso con le persone. Non c’è soltanto il gusto irrefrenabile per il nuovo cellulare, il nuovo PC, le scarpe o l’automobile, spesso a seguire la stessa sorte sono le persone che ci vivono accanto. Come dei bambini siamo estasiati dalla novità del nuovo partner, e proprio come un bimbo, durante il primo periodo tutto passa in secondo piano. Cerchiamo di scoprire tutto del nostro nuovo oggetto del desiderio, lo coccoliamo, cerchiamo di non rovinarlo ma quell’implacabile killer che è il tempo non sbiadisce soltanto le immagini, ma anche le persone reali. Ed ecco che, rievocando il bambino che è in noi, cerchiamo la novità, qualcosa o qualcuno che ci faccia rivivere quelle emozioni ormai quasi spente.

Mi sono sempre chiesto se tutto ciò dipenda da una nostra predisposizione genetica al nuovo oppure alla nostra disperata ricerca di qualcosa che però non riusciamo mai a trovare. In questo caso bisognerebbe rivedere tutte le teorie sull’amore, compresa la chimera dell’amore eterno, che si fa sempre più fatica ad accettare. Diciamo la verità. Per un uomo, la vera bellezza delle donne è la novità. Non esistono donne belle, esistono donne nuove. perché le donne nuove ci piacciono di più anche se sono oggettivamente più brutte di quella che già abbiamo.

Sia chiaro, non è una giustificazione a quello che succede alla maggior parte delle coppie, ma deve esserci in noi un gene contro il quale proprio non riusciamo ad andare. E poi io parlo da uomo ma lo stesso discorso può essere fatto anche per l’universo femminile.

Il piacere per qualcuno o per qualcosa è inversamente proporzionale al tempo passato con quel qualcuno o qualcosa. provate a pensare alla differenza tra il primo e l’ultimo sorso di una birra gelata, alla prima leccata ad un cono gelato, al primo morso ad un panino imbottito o alla prima forchettata di un piatto fumante di pasta al ragù…il gusto di quelle “prime volte” ti fa chiudere gli occhi per assaporare l’estasi di un desiderio che si avvera. Ma la birra verso la fine si riscalda, il gelato si scioglie, il panino perde sapore negli ultimi morsi ed il gusto della pastasciutta alla fine non lo senti quasi più, anzi capita spesso che di tutto ciò ne avanzi perché ne hai abbastanza.

Dunque è inutile combattere la nostra natura, siamo eterni bambini, sempre alla ricerca di qualcosa che però si direbbe non riusciamo mai a trovare.

La giostra

A volte ho l’impressione che vivere la vita di tutti i giorni sia come essere su una giostra. Sei sempre in movimento, è un giro che non finisce mai, spesso sali ad occupare il posto che trovi libero o più vicino oppure dove gli altri ti indirizzano, difficilmente ti siedi al posto che vorresti. O forse è dovuto al fatto che ci sali da bambino e quindi sono i tuoi genitori a scegliere quel posto che loro ritengono più bello o più sicuro. Macchine dei pompieri, ambulanze, cavalli, moto…la giostra è una metafora della vita in cui difficilmente puoi scegliere il posto su cui fare quel giro che  ti è toccato.

Anche io sono salito su un posto che non avrei scelto se fossi stato libero di scegliere. All’inizio ti piace comunque, l’ebbrezza del girare, il mondo che ti passa davanti, le grida degli altri, ma dopo un po’ ti rendi conto che la cosa si fa monotona, che il paesaggio è sempre uguale, che rincorri e vieni rincorso ma, in fondo, resti sempre dove sei.

Allora pensi di scendere, vorresti vedere come è il mondo visto da un’altra prospettiva. Ma se gli altri ti vedono scendere mentre la giostra sta girando pensano che tu sia pazzo…non si può scendere dalla giostra, non è permesso farlo. Ti sei guadagnato questo giro, hai occupato un posto e adesso devi aspettare che il giro finisca, poi potrai lasciare il posto ad un altro.

Chi sta girando è felice, spaventato, preoccupato, sereno, agitato ma a nessuno viene in mente di scendere. Io ho deciso di scendere, di vedere il mondo con i piedi per terra, non sulla pedana rotante della giostra, manovrata da chi non vuole che tu interrompa quello che ti è stato assegnato. Non funziona così. Rischi di farti male. Il mondo è fatto da tante giostre, ogni città in cui viviamo lo è, più grande o più piccola, in una fiera di paese o in un luna park e chi non ha un posto sulla giostra è un folle, un emarginato.

Ma io l’ho fatto, sono riuscito a scendere indenne e sto guardando il mondo con altri occhi. E mi rendo conto che il mondo, la vita è completamente diversa vista da quella prospettiva. Posso guardare tutto ciò che mi sta attorno con calma, con i miei tempi, fermarmi quando voglio, proseguire quando mi va. Sulla giostra no, devi girare alla velocità di chi manovra e la prospettiva che hai è sempre la stessa, fatta di cose che ciclicamente ritornano sempre.

E guardi anche chi è rimasto sulla giostra…e ti chiedi come hai fatto a rimanerci per tanto tempo, rinunciando alla possibilità di scandire da solo i ritmi della tua meravigliosa esistenza…