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Le “interviste impossibili”: dialogo con il gatto

“Se i gatti potessero parlare, non lo farebbero” (Nan Porter)

Eccoci qui con la seconda puntata delle nostre “interviste impossibili”. Questa volta abbiamo come gradito ospite sua maestà il gatto, un essere misterioso ed affascinante che ci tiene a non essere paragonato al suo collega cane e che abita le case di molti di noi umani.

D: ”Che effetto le fa vivere in compagnia degli esseri umani?”
R: “Iniziamo subito con una domanda difficile, eh? Guardi, l’interazione con gli umani è molto diversa da parte nostra come da parte loro. Mi spiego, quando un umano decide di condividere la propria dimora con un rappresentate del regno animale, parte dal presupposto errato che tutti gli animali siano uguali e, per il solo fatto che danno loro un tetto e un pò da mangiare, si aspettano in cambio amore incondizionato e soprattutto obbedienza alle loro stupide regole. Non andare qui, non fare questo, dammi la zampa, salutami, vieni qui quando ti chiamo e cose del genere. Noi gatti abbiamo una certa etica da difendere ed è ben diversa da quella degli umani. Mi chiedo perchè loro sono fatti così e quindi disposti a dare affetto solo alle persone che fanno quello che loro desiderano. E’ un principio che in natura è illusorio e del tutto sbagliato.
Non capisco poi perchè la maggior parte degli umani si lamenti del fatto che noi gatti, secondo loro, pensiamo soltanto a mangiare e dormire quasi tutto il giorno. In primo luogo, in questo tipo di affermazioni vi leggo una certa invidia nei nostri confronti, perchè quasi tutti loro vorrebbero fare le stesse cose ma gli risulta impossibile. Non esiste un solo umano che non abbia mai detto in vita sua “Il mio sogno sarebbe quello di starmene disteso in un bel posto a mangiare, dormire e non fare nulla tutto il giorno”. A noi viene naturale, loro non riescono a farlo nemmeno quando sono in vacanza e potrebbero, quindi temo che sia un loro problema di coerenza mentale.
In secondo luogo gli umani non hanno ancora capito che il nostro ruolo nelle loro vite non è tanto quello di “animale di compagnia”, a quello ci pensa il collega cane, noi siamo un pò i guardiani della loro anima e gli siamo vicini solo quando ne hanno davvero bisogno perchè noi percepiamo e vediamo cose che loro non possono percepire nè vedere. Siamo come muti insegnanti che comunicano con svariati suoni e intonazioni o sguardi di rimprovero, ma devo ammettere che i nostri allievi umani non sono molto intuitivi e, se potessi, li boccerei quasi tutti. Si credono la razza dominante del pianeta…ma è davvero così? (strizzata d’occhio)


D: “Non posso non chiederle quali sono i rapporti con l’altro animale con cui condividete la compagnia degli umani, il cane.”
R: “Malgrado le dicerie infamanti sul nostro rapporto, che le leggende vorrebbero conflittuale, devo dire che le nostre relazioni sono ottime e gli umani con la frase “come cane e gatto” dovrebbero indicare due persone che vanno d’accordo e non due persone in conflitto tra di loro, ma, come ho detto prima, gli umani sono poco perspicaci.
I rapporti sono buoni essenzialmente per il fatto che non siamo affatto in concorrenza ed operiamo in settori diversi, come ho accennato prima. Dai cani ci si aspetta che facciano la guardia, che accompagnino l’uomo a caccia, oppure che si specializzino nel salvataggio in acqua o guidino gli umani che hanno avuto la sventura di perdere la vista. Sono queste, essenzialmente le quattro categorie in cui operano i cani. Avete mai visto un gatto da guardia o uno da caccia? Oppure un gatto che guida un cieco? Certo potremmo farlo benissimo, visto che ci vediamo perfettamente anche di notte ma non fa per noi. Se penso a tuffarmi in acqua poi…non mi ci faccia pensare che mi sento già male.
Anche coi cani, però, gli umani hanno un pò stravolto i programmi e quindi, tengono i cani, che sono nati per i compiti attivi di cui ho parlato, fermi in appartamento come animali da compagnia e pretendono da loro cose che essi non sono nati per fare. Una volta ho avuto modo di scambiare quattro chiacchiere con un levriero che si lamentava del fatto che il suo “padrone” lo tenesse chiuso in 100 metri quadrati di casa e lo portasse solo sotto casa per qualche metro solo per fargli fare i bisogni. Era molto depresso. Ma si può essere più stupidi? Sarebbe come far correre Usain Bolt attorno al tavolo della cucina.
Per fortuna, a noi gatti tutto questo non viene richiesto, e forse per questo motivo gli umani non hanno ben capito che ruolo abbiamo. Noi, a differenza dei colleghi cani, manteniamo sempre il nostro carattere, per cui non troverà mai due gatti uguali, lo stesso non si può dire per il cane. Posso solo anticipare che noi abbiamo anche poteri diciamo così…particolari, ma non posso dire di più altrimenti violerei il segreto professionale.
Per riassumere le differenze tra noi ed i cani potrei dire che il cane vi insegna ad amare, noi vi insegniamo a vivere.


D: “Molti di voi sono di colore nero e si dice che in quel caso portiate sfortuna, che ha da dire?”
R: “Una simile affermazione è così stupida che non meriterebbe risposta alcuna, ma qualcosa in proposito mi sento di dirla. Come ho già accennato sopra, ci accusano di fannulloneria, di opportunismo, di indifferenza e adesso anche di portare sfortuna.
Forse molti ignorano che l’intera storia umana è costellata di favole, leggende e simboli che ci riguardano. Gli egizi, che poi tanto fessi non erano, ne hanno fatta una divinità di nome Bastet, guarda caso di colore nero. A quei tempi chiunque causasse la morte di uno di noi veniva punito con la pena capitale. E quando sempre uno di noi moriva di morte naturale, in casa ci si rasava le sopracciglia in segno di lutto e pensi che ci dedicarono un’intera città, chiamata Bubaste dove venivamo imbalsamati e seppelliti con grandi onori…eh già bei tempi, ma non vorrei sembrare troppo nostalgico.
Vede, quella diceria stupida sui gatti neri è il frutto della malsana influenza di quella che voi chiamate Chiesa. Ci hanno perseguitati per anni e messi sul rogo perchè credevano che fossimo creature del diavolo…ma si può essere più imbecilli? Intanto posso anticiparvi che il diavolo non esiste, noi lo sappiamo bene, e poi dopo che ci hanno perseguitati e sterminati si vestono loro di nero…mah!


D: “Se dovesse eleggere la sua dote principale, quale sarebbe?”
R: “Senza dubbio la curiosità, siamo terribilmente curiosi e forse l’unico detto umano che potrebbe avvicinarsi ad una verità sul nostro conto è quello che recita “la curiosità uccise il gatto”. Ma, del resto, come si fa a non essere curiosi in questo mondo? La curiosità tiene vivo chiunque e, per quanto ci riguarda, voi umani siete così buffi che è impossibile non essere curiosi per osservare quello che combinate…

Polli, passeri ed aquile

“Non puoi volare come un’aquila se lavori con i tacchini” (A Bloch)

Il fine ultimo della vita e dell’esistenza umana è sempre stato quello di avere risposte ai suoi enormi ed irrisolti misteri.
Fin da bambini facciamo domande alle persone che ci stanno attorno ed in quel periodo delicatissimo della nostra vita gli unici a cui farle sono i parenti, in primo luogo genitori, fratelli e sorelle.
E qui, se ti va male, ed hai una famiglia fedele alle tradizioni, religiose e non, il meglio che ti può capitare è che non ti rispondono e ti ignorano perchè credono che le tue domande sono stupide. Solo così inizi a capire fin da subito che le risposte devi cercartele da solo e che dall’esterno ti arriveranno solo idee non tue che, a loro volta, non sono neanche di chi te le vuole proporre. Se invece ti stanno addosso e ti seguono passo passo cercando di trasferirti a tutti i costi i loro concetti di vita ideale e di giustizia, di quello che è giusto e sbagliato, di un certo dio o, addirittura di una squadra da tifare, spesso senza nemmeno aspettare che tu faccia alcuna domanda, allora la situazione si complica e le tue domande sono destinate a moltiplicarsi con il trascorrere del tempo senza che nessuno possa darti una risposta valida che vada veramente bene anche a te.
La verità è che il rapporto tra le possibili domande e le loro risposte è drasticamente sproporzionato.
Fin dal momento in cui la specie umana, per qualche misterioso motivo, separandosi da quella animale, ha iniziato a sentire l’esigenza di porsi un determinato tipo di domande, la situazione ha iniziato ad evolvere in una maniera che, ancora oggi, non sappiamo quanto sia un bene per la nostra specie. Un gatto vive e basta, senza chiedersi perchè è venuto al mondo e cosa ci è venuto a fare, non fa danni al pianeta e certe volte mi viene da pensare che è così tranquillo perchè, al contrario degli uomini, lui conosce già il suo ruolo e non se ne preoccupa.
La natura compie le sue scelte esclusivamente su una base: quella evolutiva. Se una caratteristica della specie si dimostra più valida di un’altra per la sopravvivenza di quella stessa specie, allora, con tempi lunghissimi, la caratteristica migliore inizierà a farsi strada tra le generazioni successive.
Mi chiedo quanto la nostra evoluzione cerebrale, tesa a farsi domande sull’assoluto, sia una caratteristica “evolutiva” della specie, visto che, ad oggi, quasi tutte le risposte ai nostri dubbi esistenziali sono ben lontane dal trovare una risposta soddisfacente, per cui se ne deve dedurre che, in ottica evoluzionistica strettamente intesa, la ragione è stata involutiva.
Ed ecco che una particolare specie di persone inquiete, arrivate ad un certo punto della vita, quando sente che il vegetare tra risposte preconfezionate da altri non gli basta più ed ha troppe domande sul suo taccuino, allora si mette alla disperata ricerca di quel qualcosa che possa giustificare un appagamento al senso della sua effimera esistenza su questo pianeta. E qui mi viene in mente un paragone con alcune specie di uccelli che credo renda bene l’idea.
Il primo stadio è quello della “gallina”, il classico uccello che ha le ali e non vola.
E qui ci sono le galline in batteria, che sono la maggioranza, che conducono un’esistenza segnata, si nutrono in catene industriali sempre uguali, e, quando giunge il loro momento, muoiono in maniera indecorosa anche per la loro specie. Poi ci sono le galline allevate a terra che si differenziano solo per avere uno spazio un pò più grande di quelle sopra ma che conducono un’esistenza non troppo diversa e soprattutto una fine analoga.
E, tra queste due specie, abbiamo descritto oltre il 70% dell’umanità attuale, facendo presente che una gallina non ammetterà mai di essere una gallina. E una gallina non si fa quasi mai domande.
Il secondo stadio è quello del “passero”, un simpatico uccellino dall’anonima livrea di piume marrone che almeno raggiunge l’obiettivo di sollevarsi da terra anche se non di molto. Svolazza tra le cime degli alberi ed ha una visione apparentemente privilegiata del mondo, cinguettando e compatendo le povere galline che non si staccano da terra e sono ingabbiate in percorsi segnati che portano a vite e morti prive di significato.
Il passero, col suo anonimo piumaggio marrone, incontra, durante i suoi voli di ramo in ramo, altri uccelli che volano alla stessa sua altezza, ma dalle livree colorate, con una gamma di colori che vanno dal bianco, al nero al mix di colori variopinti a cui i passeri ambiscono. Addirittura restano estasiati dai pavoni che stanno quasi sempre a terra ma che sanno volare benissimo e cercano di convincere i milioni di passeri a sforzarsi per diventare come loro, oppure cardellini, cinciallegre, canarini, falchi, rondini o qualunque altra razza volatile che non sono loro invece di spiegargli i vantaggi di essere passero.
Quest’ultimo cerca disperatamente di trovare il modo di diventare un falco, una rondine o un canarino, con gli artigli per carpire, un volo veloce per sfrecciare alto nel cielo o un suono melodioso, ma non ci riesce perchè si incasina e non potrà mai riuscirci, col risultato di avere milioni di passeri che invece di essere contenti di volare ed essere passeri cercano di essere falchi, rondini, gabbiani e canarini e per questo sono più depressi ed infelici delle ignare galline.
E siamo al 29% dell’umanità passera che, con il 70% gallina compone il 99% del genere umano.
Il restante 1% appartiene al genere aquila.
Le aquile, al contrario di galline e passeri sono animali in via di estinzione.
L’aquila vola più in alto di tutti e da lassù ha una visione privilegiata del mondo. Le galline forse neanche riesce a vederle ma sa che ci sono. I passeri riesce a scorgerli ed osserva il loro frenetico battito di ali da un ramo all’altro nella speranza di catturare una mosca o un verme per sfamarsi.
L’aquila non vorrebbe essere nessun altro uccello che non sia quello che è.
E’ in cima alla catena alimentare e può cacciare quello che vuole, ma per farlo deve scendere. La sua rapidità di scelta e di attacco non da scampo alle sue prede se decide di ghermirle, ma lo fa solo quando è necessario, non lo fa per il puro gusto di cacciarle. Rettili, mammiferi, altri uccelli come lei…se è necessario ha i mezzi per sopraffarli.
L’aquila è stata il simbolo di popoli quali i babilonesi, gli egizi per cui era l’uccello-anima, i greci, i romani con il loro impero sugli stemmi delle legioni, è citata nella Bibbia, è stato il simbolo di Napoleone ed attualmente è l’emblema degli USA.
Pare che sia l’unico uccello che possa guardare fisso il sole senza procurarsi danni alla vista. I nativi americani ambivano a farsi copricapi con le loro piume, e si potrebbe continuare all’infinito.
Ma che si dicono un’aquila, una gallina ed un passero? la gallina neanche sa che esiste una specie così, il passero le direbbe “vieni ad ascoltare il pavone e l’usignolo e vedrai che ti si apriranno mondi nuovi” .
L’aquila sorride dentro di se e prova pena per i suoi “fratelli” uccelli perchè un pavone l’ha mangiato ieri e l’usignolo neanche gli fa da oliva per l’aperitivo se ha fame.
Ma l’aquila è sola, perchè vola troppo alta ed a quelle altezze manca l’aria e non si avventura nessuno. Non deve sbattere le ali freneticamente come un passero per muoversi, perchè la sua apertura alare le consente di planare a grandi altezze senza il minimo sforzo.
Insomma le galline non si fanno domande, i passeri se ne fanno fin troppe e vanno a cercare le risposte sempre nel posto sbagliato, mentre le aquile hanno cercato a lungo quelle risposte e sono arrivate alla conclusione che, alla maggior parte di esse, non può esserci risposta allo stato attuale, per cui se ne fregano di tutto e scelgono di continuare a volare solitarie in alto nel cielo dove nessun altro può arrivare.

Gatto

Ho preso da poco un gattino nero di nome Yoda che si è letteralmente impossessato di tutta la casa.
Il nome è derivato dalla mia sfrenata passione per l’omonimo personaggio della saga di Guerre Stellari e dovuto, inizialmente, allo strano modo in cui tiene le orecchie, quasi mai diritte ma orizzontali, proprio come il gran maestro Jedi.
Ma è bastato poco per convincermi che il nome fosse azzeccato non solo per le sue orecchie ma anche per il fatto che mi sta facendo rendere conto che è davvero un “maestro” da cui apprendere.
Un animale si accoglie in casa per la compagnia, per giocare con lui quando ci va, “esigendo” che lui sia sempre pronto a farlo, insomma se, come quasi sempre accade, non ci sforziamo di adattarci ai nostri simili umani figuriamoci se lo facciamo con i nostri animali.
Il cane è quello che più si è “piegato” a questa esigenza umana ed ha stabilito un patto diabolico con gli esseri umani. Assistenza e cibo in cambio di obbedienza incondizionata ed è per questa ragione che resta il più amato tra gli animali da compagnia, da lavoro o da difesa, a seconda della razza. L’essere umano è di natura infedele ma ama l’altrui fedeltà.
Il gatto è un essere misterioso, indipendente, pigro e sfuggente, praticamente tutto il contrario del cane e, probabilmente per queste sue caratteristiche, ha avuto un peso molto più preponderante nelle fiabe, leggende e nella letteratura di quanto non lo abbiano tutti gli altri animali messi insieme. Sono gli animali preferiti di quelli che vengono definiti “poeti maledetti” come Bukowski o Baudelaire e le antiche civiltà, prima fra tutte quella egizia, lo hanno elevato addirittura al rango di divinità.
Bene, se cercate obbedienza e sudditanza, occhi dolci e coccole a gettone lasciate stare i gatti.
Ai cani si insegna e questi, col tempo, apprendono ciò che noi chiediamo che loro facciano; con i gatti non funziona, loro non apprendono non perchè non siano in grado di farlo, anzi, ma perchè siamo noi a dover apprendere da loro e quindi il ruolo, rispetto al cane, è invertito.
Il gatto è maestro nell’arte di dipendere da qualcuno senza privarsi della propria indipendenza…pensate a quanti vorrebbero vivere una vita di coppia o familiare così senza riuscirci…
Questo straordinario felino è poi dotato di un intuito ed empatia del tutto unici grazie alla sua straordinaria capacità di percepire e cogliere anche i segnali più nascosti e le vibrazioni più sottili. Spesso si fermano ad osservare qualcosa che loro vedono ma che è invisibile ai nostri occhi e questo è inquietante.
Notate la differenza nel loro sguardo, è un’osservazione attenta, profonda, nulla a che vedere con lo sguardo adorante di un cane che ci piace tanto, anzi è qualcosa che quando è prolungato ci mette quasi a disagio, come se fosse in grado di leggerci dentro, una specie di finestra da cui un essere misterioso ci osserva in silenzio. Una leggenda irlandese infatti afferma che gli occhi di un gatto sono finestre che ci permettono di vedere dentro un altro mondo.
Un cane non salterà mai nei punti più alti della casa, resterà lì acquattato ai nostri piedi o, se glielo concederemo, al massimo sul divano. Il gatto non ama guardare dal basso in alto ma vuole avere un punto di osservazione privilegiato, più alto, per osservare tutto e tenere la situazione sotto controllo perchè si sa, anche lo stratega più impreparato sa che l’altezza è il punto da cui si domina la situazione. Da lì guardano tutti dall’alto in basso ed è forse per questa ragione che odiano gli uccelli.
Se noi umani imparassimo ad osservare il nostro prossimo con la stessa calma e attenzione con cui il gatto guarda noi, ci regaleremmo l’opportunità di conoscere gli altri non solo per quello che dicono o fanno ma per quello che realmente sono.
Allo stesso modo se imparassimo ad analizzare il mondo con la sua stessa curiosità e intelligenza, la nostra creatività e ingegno ne ricaverebbe un sorprendente beneficio.
Il gatto, infatti, non ha fretta di capire. Si concede tempo e studia i dettagli. E raramente sbaglia.
Il gatto è un animale domestico che non si può addomesticare, non riconosce l’autorità dell’uomo perché all’obbedienza ha sostituito il rispetto: se accetta una regola o risponde a un richiesta è solo perché lo vuole, su di lui obblighi e costrizioni non sortiscono il minimo effetto.
Come disse qualcuno, “I gatti non obbediscono al padrone per cause evolutive. Se discendeste dalle tigri, nemmeno voi ubbidireste ai pronipoti delle scimmie” oppure, altra bellissima battuta, “i gatti hanno sempre quell’espressione di chi ha letto Kant e l’ha capito”.

Mimì & Cocò

Nella foresta di Fashionwood tutti gli animali sfoggiavano meravigliose pellicce, castori, volpi, visoni, orsi bruni e biondi (ossigenati), leopardi, ocelot, persino le nutrie ed i topolini non uscivano mai senza per andare a caccia o partecipare a qualche evento mondano in piazza delle querce. La piazza era il centro del bosco, con locali superchic, ristoranti molto trendy e negozi alla moda.
C’era il bistrot di Craccoyote dove potevi gustare polpette vegan allo zenzero con contorno di patatine fritte in busta e uova di cigno alle spezie. Proprio lì accanto c’era l’atelier di Giontra la lontra che si vantava di aver vestito le migliori star bestie come Topo Gigio, Lassie, Rin Tin Tin e Bruno la Vespa, nonchè svariati cani della televisione, del cinema e della politica.
Tutti gli animali insomma, vestivano pellicce lucide e sfavillanti che si invidiavano a vicenda. La famiglia Visoni, arricchitasi con un allevamento schiavista di nutrie double face, era la più invidiata ma anche i Leopardi, che si vantavano di essere discendenti del cane dell’antico poeta, non erano da meno.
Un bel dì, spuntando da un buco nel terreno, nel pieno centro della sciccosa piazza delle querce, proprio mentre c’era un vernissage nell’atelier di Miaumiau, nota stilista di collari per gatti selvatici e parrucchini per orsi calvi, ecco che arriva una talpa senza alcuna pelliccia che si scrolla di dosso un pò di terriccio, inforca due lenti spesse come fondi di bottiglia e chiede al primo animale che incontra dove poteva trovare un bar per bere qualcosa perchè aveva la bocca impastata di sabbia. Una volpe grigia fuggì subito inorridita chiamando aiuto neanche fosse arrivato un cacciatore.
Proprio in quel momento si trovavano a passare di lì Mimì & Cocò, due castori gay che in realtà si chiamavano Domenico (detto Mimmo) e Calogero, venivano dalla Sicilia in cui avevano iniziato la loro carriera come progettisti di dighe per la mafia, ma siccome non c’erano fiumi e la faccenda puzzava un pò, avevano deciso di mettersi insieme in tutti i sensi e trasferirsi nella foresta di Fashionwood per creare una linea di pellicce sintetiche per animali feriti da armi o tagliole.
Alla vista della povera talpa, che poi di vista ne aveva poca, Mimì disse a Cocò: “Povera stellina! E’ qui in piazza tutta nuda senza la pelliccia! E che antichi occhialacci trash!”
Cocò subito rispose: “Dai Mimì chevìe, cveiamo una linea di occhiali e pelliccia per questo povevo animaletto sfovtunato!”
“Siiii daiiiiii” rispose Mimì, “poi mi sa che questa qui ha nascosto un bel pò di grana sotto terra, minimo avrà un bunker, quindi sarà l’ennesima cretinetta da spennare….oddio spennare no, è già così spennata… ihihihih”
I due si avvicinarono alla talpa a passo svelto, mentre attraversava la piazza un altro stilista famoso, la tartaruga Va Lentino che da più di 200 anni disegnava elegantissimi carapaci da sera per proteggere le pellicce dei ricconi. I due lo ignorarono volutamente e raggiunsero la talpa nella speranza di ottenere qualche entratura nel mondo del sottoterra.
“Cava talpetta” la approcciò subito Cocò, “Ti pvego, seguici nel nostro bistvot che è pvopvio qui dietvo l’angolo, ti offriamo un daiquivi alla banana e discutiamo un pò del tuo tevvibile look. Non puoi mica pvesentavti qui in piazza VIP tutta nuda e con quei tevvibili occhiali….”
La talpa osservò quei due strani castori ingioiellati e rispose: “Amici miei, non avrò una buona vista di superficie come voi, ma laggiù nel profondo gli occhi non mi servono poi molto, perchè abbiamo sviluppato altri sensi con cui comunicare. Non mi servono neanche occhiali o pellicce, cosa me ne farei nel mio mondo? Ho chiesto solo un bicchier d’acqua per dissetarmi ed invece trovo chi scappa impaurito e chi mi vuole vendere qualcosa in base al mio aspetto. Vi ringrazio per l’interessamento, ma me ne torno nel mio mondo e vi lascio alle vostre cazzate”… e la talpa scomparve nel nulla con uno strano sorriso…

Ciccio il riccio

Una bella serata di primavera, in una radura, al bar della quercia caduta, gli animali del bosco stavano discutendo dell’organizzazione di un party per celebrare l’inizio della bella stagione con danze e balli in quel largo spazio nascosto nel bosco delle 7 querce.

Zazà la volpe si propose subito come organizzatrice dicendo che avrebbe pensato lei a tutto facendo pagare un certo prezzo per i biglietti di invito, ma tutti gli altri animali, visti i precedenti di creste e maneggi vari che Zazà aveva fatto in precedenza, presentandosi con bosko cola sgasata e pasticcini rubati al discount, decisero che ognuno avrebbe portato qualcosa e la festa sarebbe stata ad ingresso libero…così le dissero di portare solo l’uva.

Tino lo scoiattolo avrebbe fatto preparare alla sua dolce metà dolci di mandorle e ghiande, Gegè la marmotta avrebbe pensato alla frutta con more, mirtilli ed altri frutti di bosco, Mimmo il cervo e Nico il daino ad insalata e pinzimoni, mentre Mario l’orso e Alberto il lupo avrebbero pensato a salsicce e prosciutti. Le bevande sarebbero state appannaggio di Teodoro il castoro che aveva un laboratorio clandestino di whisky ed acquavite sotto la sua diga sul fiume, oltre ad una discreta scorta di casse di birra.

La sera prefissata, Albertino il tasso, nel giro chiamato “il puttaniere” perchè pagava le tasse, montò il suo impianto stereo con l’aiuto di un coro di cicale che lo avrebbero accompagnato dal vivo nell’occasione.

Sotto l’effetto dei drink di Teodoro ben presto la festa entrò nel vivo. Pasquale il cinghiale faceva a gara con Mario l’orso a chi ballava più goffamente, mentre Selene la talpa andava a sbattere continuamente contro tutti e continuava ad invitare a ballare alberelli e cespugli non riuscendo a scorgere la differenza con gli altri invitati.

Luciano l’alce si era messo in disparte, affranto dall’ennesima storia d’amore finita male con una daina dalle curve mozzafiato che però gli aveva piazzato un paio di corna esagerate…era un vizio di famiglia…

Quando Tonino il gufo, guardando il cielo, disse che secondo lui stava per piovere gli arrivò dritta sul becco una ghianda tiratagli da Mirna la lince che gli urlò di non fare il solito menagramo.

In un angolo della radura stava, con un’aria molto triste, Ciccio il riccio, il quale non riusciva ad inserirsi nel clima di divertimento come avrebbe voluto. Con i suoi aculei non gli si avvicinava nessuno, aveva già distrutto un numero considerevole di piatti e bicchieri di plastica ed inoltre aveva bucato quasi tutti i palloncini che erano stati messi per la festa, tanto che ad ogni mossa o passo di danza ne esplodeva uno e tutti dovevano correre a nascondersi pensando che ci fosse qualche cacciatore nei paraggi.

Aveva provato ad invitare una bella leprotta a ballare qualche lento ma dopo la prima puntura lei si era allontanata di corsa. Persino Selene la talpa aveva rifiutato di ballare con lui, per cui il povero Ciccio era lì a rimuginare su cosa fosse passato per la testa del creatore per avergli fatto un fisico simile.

Ad un certo punto notò, al buffet, una splendida riccia che stava mangiando i lamponi portati da Gegè la marmotta e siccome pareva avesse sbevazzato qualche cocktail della cambusa di Teodoro, si stava divertendo a lanciarli in aria cercando di prenderli al volo con la bocca. Naturalmente ne centrava uno su dieci e gli altri si andavano ad infilzare sui suoi aculei che erano per questo motivo diventati di un fantastico rosso.

Ciccio ne restò colpito e si avvicinò alla bella riccia, deciso a fare la sua conoscenza. Nell’avvicinarsi a lei graffiò Casimiro il ghiro che stava beatamente ronfando seduto su un tronco e che gli lanciò una serie di bestemmione che avrebbero fatto impallidire un ultrà dell’Atalanta oltre ad una salsiccia che gli si infilzò tra gli aculei delle parti basse. Dal momento che non aveva intenzione di presentarsi alla bella riccia con un look alla Riccio Siffredi con quella salsiccia posticcia, chiese ad Alberto lupo di togliergliela e quest’ultimo acconsentì, estirpandogli però anche l’aculeo nel quale si era infilzata divorandola in un boccone stile spiedino.

Libero dall’appendice posticcia, Ciccio si spruzzò un pò di eau de sottobosque…che portava sempre con sè e si avvicinò alla bella riccia che stava continuando a ricoprirsi di lamponi. Al lancio dell’ultimo in aria, le si avvicinò tanto che il frutto andò dritto nella bocca di Ciccio che lo masticò con gusto offrendo alla riccia uno sguardo languido e compiaciuto.

“Come ti chiami?” Le chiese.

“Rossella” rispose la riccia.

“Un nome che ti si addice molto, vuoi ballare?”

Con l’eleganza tipica del riccio, Ciccio la portò al centro della pista ed i loro aculei si intrecciarono dolcemente mentre partivano le note di “starway to heaven”…

Morale: anche se vivi una vita da solo, e ti sembra di essere fuori posto quando tutti intorno a te si divertono, ci sono momenti in cui è dolce anche stare sulle spine se c’è qualcuno con cui condividerlo…

 

 

La strana storia di una foca

Al quinto giorno della faticosa creazione della Terra e di tutti gli esseri che l’avrebbero abitata, Dio si trovò a dover organizzare la dislocazione delle creature che aveva partorito nella sua divina genialità, come se dovesse appiccicare le figurine su un album completamente vuoto. Si convinse che un compito del genere poteva essere affidato ad un software del suo God computer che aveva appositamente creato con il simbolo del primo frutto da Lui ideato, la mela, che però quell’ingordo imbecille di Adamo aveva morsicato malgrado il suo espresso divieto, sobillato dalla sua dolce metà, tale Eva, che fin da subito gli stava creando problemi di ordine e disciplina con le sue tentazioni. Si appuntò che avrebbe dovuto correggere quelle sbavature creative, magari riducendo di un paio di misure le tette di Eva, ma in seguito gli passò di mente.

Guardò con disappunto il suo PC con la mela morsicata e studiò un’app che sistemasse tutti gli esseri viventi nelle zone del globo più adeguate alle loro caratteristiche.

Sarebbe bastato inserire il nome e la foto di ogni singolo essere nel riquadro dell’app, che ribattezzò “Animal house”, per ottenere la zona più appropriata in cui far nascere i primi esemplari di quella specie.

Ai suoi esseri prediletti, uomo e donna, aveva riservato un posto privilegiato nel resort a 5 galassie extralusso che aveva chiamato “Eden”, da cui aveva bandito i due maggiori flagelli, le malattie e la politica, ma la loro bravata d’esordio alla sua mela lo aveva fatto veramente incazzare, al punto che si era riproposto, per i prossimi 20 milioni di anni, di non farli mai più rientrare e di sistemarli invece sul pianeta insieme a tutti gli altri, con annessi di malattie, cataclismi e politici dementi così avrebbero imparato a vivere. “Tra qualche milione di anni vediamo come si comportano e poi eventualmente deciderò se riammetterli nell’Eden”, si disse (da fonti autorevoli si è venuto a sapere che, in base alla situazione attuale, ciò non avverrà mai).

Volendo comunque mettere alla prova le loro abilità in condizioni differenti, sparse gli uomini un pò a caso su tutto il globo, mandando quelli dalla carnagione più chiara nei posti con poco sole e quelli dalla pelle più scura laddove il sole batteva implacabile tutto l’anno, in modo tale che l’abbronzatura non diventasse uno status symbol e si sentissero tutti uguali, per il resto si sarebbero arrangiati.

Poi prese ad inserire i dati di tutti gli animali nell’app “animal house” e distribuì questi ultimi in base alle zone in cui le loro caratteristiche avrebbero trovato facile adattamento per la sopravvivenza.

Non si accorse che, per un bug nel programma, la foca, la quale avrebbe dovuto essere mandata principalmente ai poli per le sue evidenti caratteristiche, venne invece spedita in Africa.

Subito la foca si rese conto che qualcosa non andava. Quasi tutti gli animali che vedeva intorno avevano lunghe zampe con cui correvano come matti, chi inseguiva e chi era inseguito, uno in particolare la stupì. Aveva il collo così lungo che la foca, che invece il collo non lo aveva neanche, non riusciva neanche a vedere dov’era la testa…pensava che avesse la testa fra le nuvole. Poi si rese conto che a lei piaceva un sacco il pesce, ma di pesce lì intorno neanche l’ombra…poi con quel maledetto caldo si sarebbe accontentata anche soltanto dell’ombra senza il pesce.

Quindi fece di necessità virtù e si fece vegetariana. La prima volta che provò a mangiare verdure stette malissimo.

Una volta si trovò a tu per tu con un leone. Il bestione aveva un fare minaccioso ma la guardava con stupore. Lui, da animale qual’era, evidentemente aveva concluso che le prede commestibili bisognava catturarle correndo, insomma il pane se lo doveva sudare, invece quella foca stava lì immobile che lo fissava coi suoi occhioni senza muoversi. Pensò che sicuramente non era buona da mangiare.

Ben presto tutti si accorsero che la foca, per quanto simpatica e carina, in quell’ambiente combinava soltanto disastri. Gli animali, nelle loro folli corse, inciampavano su di lei, o venivano schizzati dal fango quando trovava qualche pozzanghera con un pò d’acqua dove cercava di sguazzare e la intorbidiva tutta. E poi quel dannato caldo…

Un giorno decise di spingersi un pò oltre quell’ambiente inospitale ed arrivò alle porte di una missione dove una monaca la trovò che saltellava con difficoltà e visibilmente provata. La monaca realizzò che dovesse trattarsi di quell’animale strano di cui tutti parlavano nella savana, che faceva fare uno strano verso a tutti gli animali quando se la trovavano tra le zampe… “fo-ka” “fo-ka”, probabilmente era un abbreviativo per “fottuta kakakazz” e quindi la foca venne accolta nel villaggio e le venne dato il nome di Avvo Katola, che in Swaili significa “umano geloso o petomane folle”.

Si trovò ben presto più a suo agio in quel nuovo contesto e tutta la gente del villaggio, principalmente i bambini, le si affezionarono moltissimo. Faceva versi buffi ed aveva doti che tutti iniziarono ad apprezzare col tempo. Aveva uno splendido carattere ed anche uno straordinario senso dell’equilibrio, dentro e fuori, infatti una volta che un bambino aveva provato a lanciarle una palla, Avvo Katola era riuscita a tenerla sul muso immobile senza farla mai cadere, sintomo di grande intelligenza e concentrazione. Ogni bambino del villaggio voleva stare con lei a giocare e la foca trascorreva le ore con loro molto volentieri.

Un bel giorno Dio, facendo una verifica della situazione degli esseri viventi sulla Terra, si accorse di aver commesso un imperdonabile errore: aveva mandato la foca in Africa! Ma anche lui forse commise un secondo errore e rimandò la foca nel suo habitat preassegnato.

Una volta arrivata al polo la foca si rese conto di essere una delle tante, di non essere più apprezzata per le sue doti e qualità e, anche se c’era un sacco di pesce da mangiare ed acqua a volontà, faceva un pò troppo freddo per i suoi gusti. A quel caldo ci aveva ormai fatto l’abitudine. E poi non c’erano nè palle nè il sorriso dei bambini con cui giocare, niente risate, niente divertimento, la notte durava mesi interi ed il sole non scaldava. L’unica caratteristica che aveva conservato era quella di combinare casini nuotando ed andando a sbattere contro tutti quelli del branco di cui faceva parte. Poi c’erano tanti animali, in acqua e fuori che volevano mangiarsela.

La foca, quindi, ben presto finì con l’intristirsi, non si sentiva apprezzata, non riusciva a trovare un ruolo nel branco che le desse soddisfazione, quindi chiese a Dio di farla ritornare dai suoi bambini in Africa, dove aveva conosciuto la felicità e l’amore per le cose semplici.

“Ma una foca che si rispetti deve stare nel mare” tuonò Dio allorquando udì la supplica della sua creatura. Però, resosi conto che la foca era molto triste, nella sua benevolenza l’accontentò, e lei potè tornare finalmente a sorridere tra i suoi bimbi.

Non è detto che il luogo in cui nasci, con le regole e le comodità che vengono ritenute le migliori, sia il posto adatto a te. Il tuo posto è ovunque sorride il tuo cuore.

Dedicata a chi apprezza le favole… 😉

Una favola qualunque

Nel regno di Gaianuaku i cittadini godevano di una certa ricchezza dovuta alla bontà e munificenza del loro re, il quale non vessava la gente con tasse e balzelli ma permetteva che tenessero per loro la maggior parte dei raccolti e delle loro ricchezze.

L’agio dei cittadini di Gaianuaku era unico rispetto a quello dei regni vicini che dovevano invece sottostare a tiranni ingordi e disinteressati al benessere dei loro sudditi.

Un giorno il giovane Hermes, giunto con suo padre al mercato di Gaianuaku da uno dei regni confinanti per vendere i loro miseri prodotti, sperando di ottenere un prezzo migliore, rimase molto colpito dalla bellezza del villaggio, delle sue case e dei vestiti dei suoi abitanti che vedeva per la prima volta nella sua vita. Hermes non conosceva il sentimento dell’invidia ma sapeva apprezzare la bellezza e tutto in quel posto gli sembrava meraviglioso, tanto che la sua mente priva di malignità lo portò a pensare che anche la gente del villaggio dovesse essere altrettanto meravigliosa.

In una delle poche pause dal lavoro si sedette su di un muretto a mangiare una mela e si trovò a fare conoscenza con dei suoi coetanei che stazionavano li vicino a chiacchierare tra di loro mangiando succulenti panini con la carne che si guardarono bene dall’offrirgli. All’inizio li trovò simpatici ed incuriositi per quello straniero così diverso da loro ma presto iniziarono a fargli domande su chi era, da dove venisse e ciò che possedeva, come se quello fosse tutto quello che gli interessava sapere. La povertà di Hermes fece cambiare atteggiamento ai ragazzi che iniziarono a schernirlo ed a definirlo “barbone” e “pezzente” prendendosi gioco di lui.

In quel momento un cane, in condizioni davvero penose, passò loro accanto, così magro che sembrava non mangiasse da giorni e quando si avvicinò al gruppo, malgrado l’odore della carne lo avesse attratto, si avvicinò ad Hermes che non potè che dividere metà della sua mela con la sventurata bestiolina.

I ragazzi iniziarono a ridere sguaiatamente tirando pietre alla sventurata creatura, urlando che un pulcioso aveva riconosciuto subito un suo simile e che insieme facevano certamente una bella coppia. Hermes si frappose tra la povera bestiola e quei ragazzi trascinandola via con se fino ad arrivare al carretto di suo padre. Il genitore, appena vide il cane, inveì a sua volta contro Hermes urlando che non voleva quel sacco di pulci accanto al suo carro e che nessuno si sarebbe avvicinato a comprare le sue merci con quella bestia li vicino.

Hermes si perse negli occhi teneri ed imploranti di quello sfortunato cane dicendo al padre che non lo avrebbe abbandonato e che sarebbe rimasto con lui.

Allontanatosi con la bestiola che lo seguiva, si trovò ad attraversare le strade del villaggio mentre la gente si scansava al loro passaggio tirando bucce di patate e deridendoli chiedendosi ad alta voce chi avesse più pulci, se lui o il cane…

Hermes aveva solo seguito il suo cuore ed aiutato una creatura in difficoltà e, per questo, si trovava ad essere deriso e messo ai margini della società. Improvvisamente si trovò a riflettere come tutta quella felicità e quel benessere avessero inaridito l’animo delle persone e quel posto non gli appariva più il paradiso che aveva creduto che fosse.

Proprio in quel momento, mentre evitava l’ennesima pietra che gli lanciavano contro, udì l’avvicinarsi di una carrozza trainata da una schiera di cavalli bianchi e subito si fece da parte avvicinando a sè la povera bestiola.

Giunta alla sua altezza, la carrozza improvvisamente si fermò ed Hermes notò che tutti quelli che fino a poco tempo prima stavano insultandolo e lanciandogli oggetti, si inchinarono. Dalla carrozza ne discese quello che doveva essere il re, seguito da una misteriosa e bellissima fanciulla dall’aria molto triste. Il sovrano e la ragazza venivano proprio nella sua direzione ed Hermes ritenne che fosse opportuno inchinarsi al re ed a quella che, con ogni probabilità era sua figlia la principessa. Notò anche che il suo nuovo amico a quattro zampe stava dimenando la coda alla vista della ragazza che stava venendo loro incontro.

“Angel!” gridò la ragazza appena vide il cane, correndogli incontro ed abbracciandolo. La bellissima ragazza sembrò aver ritrovato un sorriso che doveva aver perso da tempo mentre ricopriva di baci il cane.

A quel punto avvenne una cosa strana. Sembrò che la bestiola stesse comunicando alla principessa che quell’incontro e la sua salvezza fossero dipesi da quel giovane male in arnese che il cane continuava a guardare.

“Come ti chiami, giovane straniero?” chiese ad Hermes la principessa.

“Hermes, vostra altezza. Sono venuto dal vicino regno di Soul per vendere con mio padre le nostre merci. Qui è tutto meraviglioso e ricco, ma l’unico amico che ho trovato è stato lui” fece indicando il cane.

“se vorrai, giovane Hermes” disse il re intromettendosi nel discorso, “sarò felice di averti ospite d’onore a palazzo dove potrai avere un lavoro e tutte le ricchezze ed i privilegi che desideri perchè grazie a te mia figlia ha ritrovato il sorriso”.

Il ragazzo accettò volentieri, riflettendo su come la strada verso il paradiso passasse attraverso l’amore per qualunque forma di vita bisognosa d’affetto piuttosto che nella ricerca affannosa dell’inutile riconoscimento sociale.