racconti

Pidocchio

Nel paese di Spendaccia, enclave internazionale, la popolazione locale viveva nel lusso e nell’abbondanza, poichè apparentemente si trattava di un’isola felice dove il governo diceva che la disoccupazione era in calo e gli stipendi erano molto più alti della media.
Qui le attività commerciali fiorivano e le persone trascorrevano la maggior parte del loro tempo libero facendo shopping compulsivo, acquistando anche beni di lusso ed oggetti per la maggior parte perfettamente inutili.
Il sindaco del posto, il Dottor Malandro Manibuche (lui amava pronunciarlo alla francese “Manibusc’”), che non aveva molto da fare, senza problemi di migranti e delinquenza, aveva emesso un editto che addirittura abbassava le imposte su tartufi ed aragoste ed un pieno di benzina alla Ferrari costava quanto un pieno di un motorino a Napoli. La sede comunale era stata progettata dall’arcinoto designer Renzo Pianerottolo ed alla mensa sulla roof-terrace, una volta alla settimana, veniva a cucinare il noto chef Craccola, ovviamente pagati dai soldi dei contribuenti che però erano felici di questo.
In un impeto di generosità politica, il dottor Manibuche si vantava di aver accolto a Spendaccia un migrante che viveva in un enorme attico affacciato sulla strada principale ed aveva 15 persone di servitù ed una piscina sul terrazzo e tre volte alla settimana organizzava rumorosi bunga-bunga. I media sinistrorsi insinuarono che non si trattava di un migrante, bensì del nipote dello sceicco Alì Al Vizyat che era stato mandato a Spendaccia in punizione dallo zio per aver rigato la carlinga del Boeing 777 di famiglia volando completamente ubriaco.
A Spendaccia, durante i saldi, i prezzi aumentavano e gli entusiasti cittadini facevano la fila per accaparrarsi splendide cose inutili a prezzi esorbitanti.
In un quartiere residenziale alla periferia di Spendaccia viveva il figlio di un falegname che era stato tra i padri fondatori del paese e che aveva contribuito, col suo duro lavoro, a far diventare quel posto uno dei più privilegiati al mondo.
Il suo nome era Nicolò Dell’arca ma per tutti i cittadini di Spendaccia il suo soprannome era “Pidocchio” perchè non partecipava mai alle iniziative cittadine mondane e non lo si vedeva mai nei lussuosi centri commerciali del paese a fare acquisti.
Il particolare nick gli era stato appioppato dalla contessa Pinina Zoccoletti De Inutilis che faceva parte dell’elite spendacciona del posto che non capiva come Nicolò potesse essere nel novero dei rispettabili cittadini del paese senza prendere parte a nessuna delle iniziative “social” che si svolgevano quotidianamente a Spendaccia.
Nicolò era solito fare la spesa nel minimarket del suo quartiere invece che al mega centro commerciale “Vinkulo” di proprietà del commendator Gattis e di sua moglie, signora De Vulpis. Inoltre girava a bordo di un’utilitaria che aveva da più di dieci anni ed aveva un cellulare del tipo di quelli che si aprono “a cozza” invece che, come tutti i suoi concittadini, l’ultimo modello di smartphone che vibrava quando era il momento di andare a pisciare perchè ti mandava l’alert del messaggio di “vescica piena”.
Gli influencer di Spendaccia prendevano in giro “pidocchio”, parafrasando una nota favola, dicendo che ogni volta che Nicolò andava al risparmio, gli si accorciava il braccio destro, da qui anche l’altro soprannome che gli avevano appioppato, “braccino”.
Nicolò però aveva la dote di sbattersene alla grande delle maldicenze altrui, sorrideva a chiunque e continuava a condurre la propria vita nel modo che riteneva più opportuno perchè era felice così com’era. Aveva infatti una famiglia con cui viveva sereno, leggeva decine di libri e, durante le notti stellate, preferiva alzare gli occhi al cielo e porsi domande difficili, piuttosto che averli abbassati sullo schermo di uno smartphone o di una TV ed ascoltare le domande stupide di qualche telequiz poste da un tizio superabbronzato con un sorriso falso come una banconota da 15 euro e coi capelli impomatati con un improbabile papillon rosso su un orribile abito color verde Shrek.
Quasi tutti i cittadini di Spendaccia avevano il conto corrente in una delle due grandi banche del paese, la banca Bidolanum o il Monte dei Pacchi di Sera che elargivano mutui ed emettevano bond come caramelle in maniera che gli spendacciani potessero continuare a comprare tutto il comprabile indebitandosi fino alla cima dei capelli oppure investendo anche quello che ancora non avevano guadagnato. Il prodotto che andava a ruba era denominato “Melo day a babbo morto”; un prestito dilazionato in rate infinite che ti schiavizzava fino alla fine dei giorni, però se non pagavi due rate venivano a toglierti tutto, anche le mutande e ti cacciavano da Spendaccia, perchè se volevi vivere lì dovevi sottostare alle regole del sistema.
Quando Nicolò riuscì a mettere da parte una bella sommetta, chiuse il conto, incassò l’intera cifra e si trasferì a vivere con la sua famiglia in un paradiso fiscale sudamericano dove il suo capitale, adesso si gli consentiva di vivere una vita molto agiata senza la facciata di Spendaccia e le truffe delle sue banche.
Un bel giorno, mentre Nicolò faceva colazione al tavolino del suo bar preferito in riva al mare del paesino in cui viveva, lesse sul giornale che Spendaccia e le sue banche erano falliti, l’economia crollata ed i suoi abitanti fuggiti in continente a fare i braccianti elemosinando un posto di lavoro.
Nicolò si concesse un sorriso sardonico e continuò a bere il suo caffè mentre i raggi del sole gli accarezzavano il viso.

Amore per sempre

Belinda è una bella donna che aveva avuto la sfortuna di vivere molte relazioni “sbagliate”. Aveva inoltre il “difetto” di essere innamorata dell’amore e proiettava questa sua impellente esigenza su ogni uomo che incontrava e che le dimostrava un diretto ed elegante interesse, praticamente quasi tutti, data la sua avvenenza.
Dopo l’ennesima delusione, Belinda cadde in una profonda crisi che la spinse a voler chiudere con la speranza di incontrare la sua anima gemella, fomentata in questo proposito dalla maggior parte delle sue numerose amiche single, a cui chiedeva spesso consiglio, essendo tutte accomunate da esperienze più o meno simili, una sorta di schiera di amazzoni in guerra perenne con il genere maschile che organizzavano uscite solo tra di loro per stabilire piani di difesa sentimentale. Per loro gli uomini erano monete con una sola faccia in vista, quella nascosta si rifiutavano o facevano finta di non vederla e trovare un uomo che mettesse tutte d’accordo era più raro che trovare appunto una moneta in bilico che potesse mostrare entrambi i lati.
Se poi erano carini e magari anche benestanti automaticamente erano dei gran bastardi, se erano brutti…bè neanche meritavano attenzione e quindi era inevitabile che fossero sempre ad un punto morto.
Poi, se per qualche ragione, si palesava qualcuno che andava loro a genio, allora andava bene tutto, ricco, povero, bello o brutto. Si sarebbe fatta fatica a fargli capire, per esempio, che un uomo che guarda una bella donna, ovunque sia ed ovunque si trovi è uno normalissimo ed è come ci si scandalizzasse che in mare vi siano i pesci…
Il loro mantra era diventato quello che il sesso era ormai bandito dalle loro vite almeno fino a quando non sarebbero riuscite a trovare finalmente il principe azzurro. Quello che opportunamente e maliziosamente nascondevano alle altre era il fatto che ogni tanto si facevano trombare selvaggiamente dal corsaro nero di turno.
Belinda arrivò quindi a convincersi che la sua spasmodica quanto vana ricerca dell’amore della vita fosse una sorta di castigo divino, un karma da espiare in qualche maniera. Forse stava davvero rincorrendosi la coda andando a caccia di una figura maschile che rispondesse il più possibile al suo ideale di uomo ma sarebbe stato come sperare di incontrare Babbo Natale dal vivo.
Non le era ancora chiaro forse che ogni persona va amata per quello che è, non per quello che noi vorremmo che fosse.
Belinda era quindi indecisa tra l’insistenza nella ricerca di un uomo come diceva lei oppure seguire il consiglio delle sue amiche amazzoni metropolitane di mettere il sesso in naftalina “tanto nessuno ci merita”.
La prima ipotesi la attraeva di più, quindi si mise a pregare ferventemente Dio o chi per lui (qualcuno doveva pur esserci…miliardi di persone non potevano essersi tutte sbagliate) di farle finalmente incontrare la sua anima gemella, ovunque si trovasse, facendo in modo che alla sua sfiga karmica con gli uomini si sostituisse un incontro altrettanto karmico che l’avrebbe resa felice ed appagata.
Dopo un bel pò di tempo, senza che Belinda perdesse fede e speranza, Dio, il quale utilizzava la Terra come cabaret per farsi grasse risate della dabbenaggine di quei comici esserini, non potè più ignorare lo stalking di Belinda che ossessivamente chiedeva un uomo fatto apposta per lei.
Il buon Dio, che possedeva avanzatissimi algoritmi per individuare la compatibilità tra terrestri sulla base delle loro caratteristiche e sogni, mosso a compassione, decise di monitorare tutti gli uomini del pianeta per cercare l’uomo dei sogni di Belinda.
Passò al setaccio tutta la popolazione maschile in un range di età che potesse essere compatibile con la donna attraverso il programma AFIS (aiuto facilitato individui solitari) ma, con suo enorme stupore, il risultato continuava ad essere negativo. La cosa lo stupiva alquanto, per cui face revisionare il software dal suo ufficio informatico avanzatissimo ma il risultato continuava ad essere lo stesso.
Per curiosità, decise di allargare la ricerca prima al sistema solare, poi all’intera galassia e finalmente trovò una corrispondenza.
Sul pianeta Artemis, dove vigeva un rigido sistema matriarcale, trovò finalmente un abitante di sesso maschile che sognava una donna a cui obbedire grazie al potere della mente e non a forza di schiaffoni e bastonate come accadeva sul suo pianeta ed il sistema AFIS dava una corrispondenza tra i due pari al 99%.
A questo punto si presentavano, per il creatore, due problemi di non facile soluzione. Il primo riguardava il trasferimento dell’artemisiano sulla Terra, il secondo, più difficile, era quello che l’aspetto fisico dei maschi su Artemis era abbastanza diverso da quelli terrestri, dal momento che i primi avevano un’altezza inferiore, un occhio solo e due organi genitali. Il resto era abbastanza simile.
Ma Dio, dopo averci pensato un attimo, esclamò “Ma cazzo io sono Dio, per me non esistono problemi irrisolvibili!”, per cui teletrasportò con la forza del pensiero l’artemisiano sulla Terra, gli aggiunse un occhio, gli infuse la conoscenza della lingua, lo allungò un tantino, gli affibbiò il nome David (su Artemis si chiamava Barambembazzo ed ovviamente non andava bene), ma gli lasciò i due genitali che magari uno di riserva poteva tornargli utile.
Restava solo da organizzare l’incontro fatale che Dio, sulla base dei film e romanzi d’amore di successo, decise dovesse avvenire casualmente mentre entrambi condividevano una passione comune.
Fu dunque ad una lezione del corso di naturopatia olistico-bio-smithsoniana (ci sarebbe voluto un corso intero solo per capire di che cazzo si trattava ma il nome era fichissimo) che Belinda e David si scambiarono lo sguardo fatale che fece scoccare la scintilla. Dio aveva incaricato il suo fido ed infallibile ruffiano Cupido di scegliere luogo e modalità per lanciare la freccia e quell’amore interplanetario predestinato era finalmente iniziato.
Agli inizi fu una passione incredibile, David sembrava anticipare i desideri di Belinda, ed in effetti ciò era possibile grazie alla sua dote telepatica artemisiana, ma dopo un pò smise di farlo perchè l’intreccio di pensieri ed immagini di Belinda era così intenso e variopinto, ed a volte persino contraddittorio, che il farlo gli provocava la stessa sensazione del bere una bottiglia di vodka a stomaco vuoto.
Col passare del tempo, come sempre succede in tutto l’universo, il luogo in cui David si trovava a vivere aveva profondamente cambiato il suo DNA artemisiano ed era stato costretto ad adattarsi ad abitudini e pensieri terrestri. Si era reso conto che sulla Terra, al contrario che su Artemis, poteva dire la sua abbastanza liberamente, bere birra con gli amici, guardare il calcio in TV, scoreggiare e leggere la gazzetta dello sport senza essere arrestato e la vita di coppia fatta di cenette, regalini, serate con la futura suocera e gli amici radical chic di Belinda, corsi di yoga, cinema e teatri di tendenza (du palle…anzi quattro) iniziava ad annoiarlo.
Quell’atmosfera magica dei primi anni iniziò a diradarsi e Belinda percepì le avvisaglie della crisi con un senso di crescente impotenza. Allora iniziò a pregare nuovamente dio per chiedergli conto di quello che stava accadendo, del perchè quella storia che sembrava così idilliaca si stava rivelando l’ennesimo fallimento.
Fu in quel preciso istante che dio comprese il suo errore più grande nella storia della creazione. Aveva creato due generi perfettamente compatibili per procreare un seguito generazionale ma la struttura mentale non era affatto simile in nessun posto e nel lungo periodo quelle differenze rendevano difficile una vita insieme.
La compatibilità poteva funzionare nella linea temporale attuale, ma non aveva immesso la variabile futuro, ecco perchè non aveva funzionato tra David e Belinda. Del resto aveva creato i mondi col fine della continuità e della procreazione e con tutti gli altri animali aveva funzionato, anche se nessun’altra specie si sognava di restare con la stessa compagna per tutta la vita, quindi che questi umani se ne facessero una ragione e si adattassero a vivere la vita così com’era senza farsi troppe pippe mentali, perchè in nessuna parte dell’universo conosciuto avrebbe scovato qualcuno che andasse bene a Belinda per sempre…

La sognerìa

Sul pianeta di Notturnia, nella distante costellazione della pantera, non lontano da un grande buco nero mangiatutto, le continue tempeste di polvere oscuravano la luce della stella che, attraverso il suo calore, rendeva comunque possibile la vita sul pianeta.
I notturniani vivevano quindi in una costante situazione di oscurità e le loro giornate erano dunque scandite più dal sonno che dallo stato di veglia, il quale durava la minima parte della giornata.
Anche per questo motivo la qualità del sonno su Notturnia era considerata molto importante e la ricerca scientifica aveva sviluppato svariati prodotti per consentire ai notturniani sogni sereni, felici e persino soleggiati.
Ma ecco che all’improvviso quelli che fino a quel momento erano stati sogni sereni, iniziarono a diventare terribili incubi e questa trasformazione della qualità dei sogni ben presto divenne un’epidemia che si diffuse su tutto il pianeta.
Gli integratori onirici, persino il potentissimo ganjadream, vendibile solo su prescrizione medica, anche se presi a dosi massicce, non davano più gli effetti desiderati, anzi amplificavano la cattiva qualità dei sogni e ben presto la situazione divenne critica in quanto la vita sociale stessa stava pericolosamente sgretolandosi a causa di questo inspiegabile fenomeno.
In molti si interrogavano sulla causa di questa sciagura ma a questo punto erano più importanti i rimedi. Certo, se non si capivano le cause del problema sarebbe stato difficile trovare un rimedio. Secoli addietro la medicina tradizionale lavorava esclusivamente sui sintomi senza porsi il problema delle cause ad aveva miseramente fallito. Quindi si era giunti alla decisione che la due cose erano inestricabilmente associate anche in quello specifico problema.
Da parte del governo si decise quindi di fare delle analisi a campione su ogni strato della società dei notturniani per cercare di capire se qualcosa fosse cambiato nelle loro abitudini mentali che inevitabilmente si ripercuotevano su quelle fisiche.
Gli scienziati di Notturnia scoprirono quindi un particolare collegamento tra l’aumento delle ambizioni in stato di veglia e quelle nello stato onirico, laddove la coscienza nel primo caso era guidata dalla mente e nel secondo caso dal cuore e dall’anima.
Si giunse alla conclusione che in qualche modo il pianeta stava regredendo ad uno stato in cui il benessere immediato stava prevalendo sulla parte più importante della vita su Notturnia, quella dei sogni, in cui era nascosta la vera felicità di tutti. Si prediligeva l’appagamento fisico ed il sogno stava perdendo la sua importanza.
Dal momento che non si riuscivano a trovare soluzioni concrete, alcune sedicenti menti illuminate si ingegnarono per porre rimedio ad una situazione che rischiava di degenerare pericolosamente nella fine della razza notturniana.
Ci fu chi propose nuove tasse sui beni di lusso da svegli e riduzione delle imposte sui beni onirici, chi invece propose una lobotomizzazione di massa con inserimento forzato di chip contenenti programmi video demenziali per indurre il sonno della ragione, chi ancora suggerì, come le correnti religiose, di sanzionare il sesso da svegli come peccaminoso mentre in sogno si poteva fare di tutto con chiunque…ma nessuna di queste soluzioni sembrava funzionare.
Fu così che un giovane scienziato scoprì una formula rivoluzionaria che calcolava l’algoritmo dell’amore e, applicandola ai notturniani, si accorse che il problema risiedeva proprio nel calo improvviso di questo sentimento che, se assente, lasciava il posto a tutte quelle altre sensazioni in contrasto con esso che impedivano la qualità e la quantità del sonno. Del resto era risaputo che odio, invidie e risentimento influiscono ovunque sulla qualità del sonno e dei sogni.
Egli cercò invano di convincere le istituzioni che aveva trovato la causa del problema che stava provocando la distruzione del pianeta, in fondo amore e compassione erano impossibili da creare o infondere in qualche maniera e poi non erano economicamente produttivi come la maggior parte degli inutili beni di consumo che, in base alla teoria del giovane scienziato, davano solo una contentezza apparente ed effimera sottraendo la ricerca di quell’amore vero la cui mancanza adesso si faceva sentire in tutta la sua drammaticità.
Di concerto con un suo vecchio amico, il giovane scienziato volle a tutti i costi trovare una soluzione al problema ed i due si ingegnarono per creare qualcosa che potesse dimostrare una inversione di tendenza.
Fu così che decisero di prendere in affitto un ampio locale in cui ricreare tutte le caratteristiche che potessero favorire una situazione di amore e benessere in coloro i quali decidevano di trascorrervi parte del loro tempo libero.
Dipinsero il posto con tinte di colori rilassanti, in giro c’erano cuccioli di animali, in sottofondo si poteva ascoltare musica classica soffusa, in ogni ambiente si bruciavano incensi dai profumi inebrianti, alle pareti vi erano dipinti dai temi e colori rilassanti, le persone presenti erano tutte sorridenti e ben disposte ad ascoltare e condividere, c’erano sale per la lettura di classici e poesie, su tutti i tavoli presenti si potevano gustare bevande salutari e dissetanti e frutta fresca, vi erano sale per meditare, per guardarsi negli occhi senza il bisogno di dirsi nulla, si potevano scambiare amuleti portafortuna, insomma era un oasi come non ce n’erano uguali al mondo.
Al piano di sopra c’erano stanze con letti comodi su cui finalmente si poteva cercare di prendere sonno in modo da recuperare i sogni perduti.
Lo scienziato ed il suo amico ribattezzarono questo posto idilliaco “la sogneria” .
E proprio qui successe il miracolo…tutti quelli che frequentavano la sogneria ripresero incredibilmente a fare sonni sereni ed a riappropriarsi dei ritmi normali che la vita da svegli gli aveva fatto perdere. Lo scienziato aveva dimostrato in questo modo che la sua teoria era esatta. Quell’ambiente aveva ridestato l’amore e la compassione tra le persone ed aveva guarito il loro stato. Il vero problema era la vita così come la società l’aveva imposta, sopprimere la vera natura ed i desideri in nome del denaro e degli effimeri beni di consumo aveva fatto perdere ai notturniani il loro bene più prezioso…
Ma era comunque stata creata la prima sogneria ed altre sarebbero venute poco alla volta, perchè la vera natura umana può addormentarsi anche per secoli ma alla fine i killer dei sogni verranno comunque sconfitti…

Storia di Gnigno e Gnagno

Gnigno fa l’operaio nella grande industria, “tiene” famiglia (moglie e due figli) e guadagna 1.200 euro al mese lavorando come un forsennato. Gnigno però fa parte delle centinaia di migliaia di persone in Italia affette da una strana malattia, riconosciuta e diagnosticata anche in ambito clinico: si chiama “ludopatia”. In pratica, il povero Gnigno non può fare a meno di scommettere su tutto, ormai il semplice risultato di un incontro di calcio non lo eccita più, cerca emozioni più forti e l’ultima scommessa piazzata è stata su quando il suo idolo calcistico si sarebbe grattato la prossima volta le palle in campo, se in casa o fuori casa, e sul colore del perizoma della sua fidanzata velina nell’ultima foto su Instagram. Ha giocato 50 euro e se azzecca l’accoppiata ne prende 1.250. Indovina la grattata di palle dell’idolo ma, siccome la fidanzata su Instagram non porta le mutande, “il gratta e vinci” dell’idolo non basta, la scommessa non viene pagata e Gnigno perde, come quasi sempre succede, i suoi sudati 50 euro. In preda a rabbia e sconforto e tirando bestemmioni irripetibili all’indirizzo della fidanzata dell’idolo, chiamata nel più gentile dei casi “sorcia smutandata” (il termine sorcia non è quello esatto ma potete ben immaginare come l’abbia definita Gnigno), tira un ceffone al figlio che piagnucola e piazza un calcio in culo (non così perfetto come quello della fidanzata dell’idolo) alla moglie che gli ha portato il caffè troppo freddo. Ed ecco che, laddove altri si sarebbero ingrifati come facoceri alla vista del rotondo culo della velina, lui gli bestemmia dietro.
Quindi esce sbattendo la porta e scende sotto casa nel bar tabaccheria dove, per smaltire l’incazzatura, fuma un pacchetto di Enfisem senza filtro, inizia a bere alcolici giocando ipnotizzato alle macchinette di videopoker “hot casinò pippòn” e “tette & culi a Las Vegas” che lo istupidiscono ancora di più, provocandogli svariate erezioni quando riesce a beccare tris e poker di tette e culi. Dopo un paio d’ore alienanti passate a premere un pulsante e dopo sette calici di tavernello realizza che ha perso altri 50 euro oltre al conto del bar.
Sale a casa, schiaffo di default al figlio e calcio in culo automatico alla moglie. Pensa che probabilmente in settimana si sarà bruciato tutto lo stipendio e si getta vestito a dormire sul letto che domani si lavora… Gnigno è considerato un lavoratore, buon padre di famiglia, è molto rispettato ed ha anche la tessera del partito dei lavoratori e lo stato se lo coccola, insieme a tanti altri come lui, gli ha dato anche l’attestato di gran lavoratore italiota però gli trattiene tutte le tasse sullo stipendio e gli strizza quello che può strizzare in aggiunta. Poi investe quel denaro incentivando il gioco d’azzardo, concedendo licenze a società che martellano Gnigno con pubblicità ovunque su quanto sia bello scommettere, quanto sia bello il gioco d’azzardo, perchè loro sono giocatori e ci tengono ai giocatori come loro, perchè con loro salti, esulti, vinci e vai ai caraibi in un baleno, sei circondato da strafighe in bikini e Gnigno, ormai completamente strafatto ci crede…se lo dice la TV deve essere così…è possibile…domani vincerò, me lo sento, gioco al lotto, enalotto, politic corrotto e gratta il biscotto e scopri se è cotto che farai il botto…
Povero Gnigno, lui neanche immagina che i giochi pubblici, gestiti dallo stato, sono vere e proprie truffe legalizzate, trappole dove il margine che l’amato stato trattiene non è mai al di sotto del 30%, spesso arriva al 60% e nel caso della cinquina al Lotto arriva al 90%…non a caso, infatti, il lotto veniva definito “tassa sull’ignoranza”. Non parliamo poi di bet strabet, bet a mammeta, bet a soreta, planet bet, bet sopra il let e sotto al tet, e via dicendo che non certo sono onlus che fanno beneficenza…

Gnagno è un giovane precario che ha fatto molti lavori, ne sta cercando ancora uno che gli consenta di arrivare a fine mese per pagare le spese, ha una fidanzata che ama e che ricambia il suo amore, non beve, non fuma, non gli interessa la politica, non vota, non segue il TG e non ha nemmeno la tv, non paga il canone, non guarda il calcio, legge libri di filosofia e spiritualità, ha lo stesso cellulare da 10 anni e la stessa vecchia auto da 20 e si rilassa facendo passeggiate nella natura con la sua fidanzata Gnagna. Il perfetto stereotipo, insomma, del ribelle sociale, del parassita da perseguitare, del dissociato disadattato che non riesce ad inserirsi nel gregge dell’apparato statale, un nemico della patria e della nazione.
Gnagno ha il pessimo difetto di pensare con la propria testa e non segue le mode e, sotto questo punto di vista, è più pericoloso del peggior terrorista.
Una bella domenica di primavera, Gnagno e Gnagna decidono di fare una gita al lago con la vecchia auto. Gnagna si sarebbe occupata dei panini e delle birrette mentre Gnagno avrebbe portato un libro di poesie di Baudelaire da leggere insieme ed un pò di erba da fumare per rendere ancor più piacevole la giornata.
Proprio mentre stavano per raggiungere la loro meta una pattuglia della stradale li ferma per un controllo di routine. Ecco che scoprono nel vano portaoggetti dell’auto una bustina con l’erba di Gnagno. Immediata la reazione dei rappresentanti dell’apparato statale di fronte a tale crimine tremendo. Sequestro, segnalazione all’autorità giudiziaria, processo, alcol test, droga test, pippa test e programma di recupero obbligatorio in centri specializzati per due giovinastri scapestrati chiare vittime della dipendenza da stupefacenti perchè è risaputo che la droga crea forte dipendenza, annebbia il cervello e ti spinge a commettere le peggiori nefandezze. Giustizia è fatta!
La gita ormai era rovinata ma Gnagno e Gnagna, consapevoli della situazione del paese in cui vivevano, non se la presero più di tanto, tornarono a casa e fecero l’amore fumandosi l’erba che era rimasta a casa per consolarsi.
Mentre erano a letto abbracciati, sentirono le solite urla dall’appartamento a fianco, quello del signor Gnigno che urlava all’indirizzo di qualcuno in televisione a tutto volume ed appellava con epiteti irripetibili la propria moglie mentre i figli piangevano…chissà perchè…è una così brava persona…

Capelli blu

Anna si alzò molto felice in quella soleggiata mattina di settembre. Quel giorno doveva riprendere la scuola ma l’estate era ancora stabilmente in sella al cavallo della stagione in corso e nel fine settimana si poteva ancora andare al mare.
Il giorno precedente, insieme alla sua migliore amica Elena, avevano deciso di effettuare un pò di cambiamenti e si erano colorate i capelli di una tinta particolare, lei blu acceso ed Elena rosso fucsia. Un modo innocente ed adolescenziale di rompere le regole, di distinguersi ed affermare una individualità in via di formazione, un modo come un altro di sperimentare nuove vie in quello che era ancora l’inizio dell’esistenza.
Si vestì scegliendo l’abbigliamento che più si adattava alle sue forme ed al suo stato d’animo, con dei colori in tinta alla sua nuova capigliatura. Non vedeva l’ora di affermare la propria identità al cospetto dei suoi compagni di classe, in quello che sarebbe stato l’anno conclusivo della sua avventura alle scuole superiori.
Sua madre l’aveva accompagnata come sempre all’ingresso della scuola, dandole un bacio prima di recarsi al lavoro e salutandola con affetto: “Ciao fata turchina, mi raccomando fai la brava!”.
Anna si diresse, con passo spigliato ed un sorriso orgoglioso, verso l’ingresso della scuola, diretta dalle suore del cuore immacolatissimo issimo issimo, per iniziare l’ultimo anno della sua esperienza didattica da adolescente per poi cimentarsi nel Colosseo dei “grandi”, al suo primo gradino costituito dalla facoltà universitaria che avrebbe scelto. Il suo sogno era sempre stato quello di fare il medico, quindi aveva le idee chiare; dopo la scuola superiore si sarebbe iscritta a medicina. Era il modo migliore per aiutare le persone in difficoltà garantendosi una vita abbastanza agiata, almeno era quello che sperava per il suo futuro.
Una volta nell’atrio, mentre stava dirigendosi verso l’aula assegnata per quell’anno alla sua classe, una voce risuonò imperiosa alle sue spalle mettendole una mano sulla spalla: “Dove credi di andare conciata così?”
Anna si bloccò, spaventata dal tocco non certo gentile e dalla voce che lasciava trapelare un disgusto che la sua mente non riusciva a comprendere.
Quando si voltò, incrociò lo sguardo sconvolto ed irato della preside, suor Giacinta, che aveva posto le mani sui fianchi alla maniera del più spavaldo attore di film western anni 30. Una specie di John Wayne in velo e tonaca. Non riusciva a comprendere l’atteggiamento che la preside della scuola aveva assunto e per un attimo si guardò i vestiti nell’infondato timore di aver dimenticato di indossare qualcosa. Jeans, scarpe, maglietta…no c’era tutto, quindi cosa voleva quella suora da lei?
“Non vorrai entrare in classe con quei capelli” biascicò l’anziana suora con veemenza, lasciando partire sui vestiti di Anna qualche gocciolina di astiosa saliva.
“Ma…ma…signora preside…io…io…veramente…cosa c’è che non va”?
“Cosa c’è che non vaaaa? Tu chiedi persino cosa c’è che non vaaaa? Ma ti sei vista nello specchio stamattina? Credi che siamo ad una festa di carnevale invece che al primo giorno in una scuola rispettabile? Mi stai prendendo anche in giro?”
Anna realizzò che il “problema” di suor Giacinta erano i suoi capelli ma non riusciva a capire come mai un colore diverso potesse aver provocato una reazione simile. In fondo non c’erano donne che da more si facevano bionde o viceversa? O magari rosse o con i colpi di sole…dov’era il problema se lei aveva scelto il blu? Non le risultava che il blu fosse fuorilegge. In fondo anche l’abito della donna era di un blu acceso, quindi suor Giacinta poteva indossare un abito blu e a lei era vietato portare i capelli dello stesso colore? Che razza di regola era? E chi l’aveva decisa?
“Adesso tu, signorina, prendi la tua sacca e te ne ritorni a casa, perchè qui, in quelle condizioni indecenti, non ci puoi rimanere nè potrai mai rientrarci se non torni normale! Mi chiedo cosa avranno detto i tuoi genitori…oppure hanno approvato questo scempio? Che mondo! Che tempi! Non c’è proprio speranza per questa gioventù scellerata…troppo permissivismo…dovrebbero raddrizzarvi tutti…che vergogna!”
Anna faticava a capire le ragioni della suora e di tutto il suo livore nei suoi confronti. Per cosa poi? Per il colore dei capelli? Che significava “ritornare normale”? Lei si sentiva normalissima, e poi conosceva il regolamento della scuola, c’era scritto che bisognava avere un abbigliamento decoroso, ma che c’entravano i capelli con l’abbigliamento? I percorsi mentali della suora ed i suoi seguivano direzioni completamente diverse, ma lei aveva gli esami quell’anno, del resto non aveva nessuna intenzione di rasarsi a zero per far contenta la preside.
E poi…con i capelli rasati sarebbe stata “normale” o non l’avrebbero fatta entrare ugualmente? Pareva che ci fosse qualche strana regola che vietasse i capelli di un certo colore, ma non averli proprio? Quello si che sarebbe stato anormale. Forse se avesse messo su una parrucca coi capelli riccioluti e neri come un rasta o come Napo orso capo, alla suora sarebbero andati bene? Era un terno al lotto.
Chissà se c’era qualche regola sulle scarpe o i calzini uno diverso dall’altro, oppure sugli occhiali con una lente si ed una no, o ancora se si poteva accedere alla scuola con un sombrero in testa o con una carota nel naso. Cos’era normale per quella donna?
Anna aveva sempre preso bei voti, mai stata rimandata e in classe era benvoluta da tutti e adesso una normalità spuntata da chissà dove e decisa da chissà chi, ne aveva fatto una ragazza anormale. Che mondo! Che tempi! pensava Anna, vergognandosi subito dopo perchè si era messa sullo stesso piano della suora anche se da un’altra parte dell’universo.
Mentre la ragazzina veniva sospinta fuori dalla preside che continuava ad inveire contro di lei ed i suoi capelli blu, alzò gli occhi al cielo e vide Gesù che la osservava smagrito ed afflitto dal crocifisso in alto sulla parete di fronte. Le piacque pensare, solo per un attimo, che anche lui era mortificato per quello che stava succedendo e che la sua normalità non fosse quella della sua sedicente servitrice che adesso la stava cacciando fuori.
Perchè, e di questo era assolutamente certa, in Paradiso Lui l’avrebbe fatta entrare anche con i capelli blu.

Dixie

Io sono Dixie e sono una bambola di pezza. In effetti non ho un nome, non ne ho mai avuto bisogno nel mio mondo delle bambole, ma la piccola Agnese, la bambina a cui sono stata affidata, mi ha chiamata così. Certo prima mi ha chiesto se il nome potesse piacermi ed a me è andato bene, breve e simpatico.

Avete mai visto i bambini come sono concentrati quando parlano con noi? Voi credete che stiano fingendo? Ah, no di certo! Tra di noi sappiamo bene come comunicare. Voi adulti avete perso il contatto col mondo della fantasia, quel mondo dove tutto è possibile e dove le vostre stupide regole non contano nulla. Le nostre sono altrettanto valide ma voi non lo capite perchè siete pieni di voi stessi. Non riuscite a vedere oltre la punta del vostro naso, anzi, spesso, non riuscite a vedere neanche quello, infatti vi fate fessi tra di voi tutti i giorni e non ve ne accorgete neppure.

Credete di avere compreso le regole del mondo e ridete dei bambini che parlano con noi, li vedete come creature ingenue ed immature che hanno bisogno di essere guidati ed istruiti secondo le vostre consuetudini che però continuano a causarvi sofferenze e dolore. La riprova è che nessun bambino poi scampa a quella sofferenza e dolore che gli verrà da quello che gli avete insegnato.

La cosa peggiore è che anche voi siete stati bambini ma non ve ne ricordate mai. Anche voi, un tempo, parlavate con noi e ci capivamo. Abbiamo provato a mettervi in guardia ma avete la memoria così intrisa di carriera, di conti, invidia ed arrivismo appresi che avete scordato la meraviglia di stupirsi davanti ad un tramonto o a seguire le mutevoli forme delle bianche nuvole nel cielo.

La piccola Agnese non dorme mai senza di me e tutte le notti le resto abbracciata vegliando sui suoi sogni innocenti che al mattino commentiamo. Voi dormite sempre da soli anche se avete qualcuno di fianco e passate notti buie e senza sogni e quelle volte che ve li ricordate, li avete dimenticati un attimo dopo perchè non date loro nessuna importanza. Noi bambole invece lo sappiamo bene che i sogni sono messaggi dell’anima quando vaga fuori dal corpo e fa esperienze nuove per dirvi qualcosa, ma per voi sono soltanto stupide fantasie e quasi vi vergognate a parlare di loro, incatenati come siete ad una realtà che neanche vi appaga.

Avete fretta che i vostri figli crescano per avere alleati fidati nel vostro mondo limitato, a cui insegnare qualcosa che altri hanno insegnato a voi prima e così sempre nei secoli senza rendervi conto che l’infanzia è quanto più vicino ci sia al paradiso come voi lo intendete.

Agnese presto sarà grande e si dimenticherà di me. Se sarò fortunata mi conserverà in una buia cassapanca che un giorno riaprirà, e, nel vedermi le affiorerà un sorriso. Sarà tutto ciò che mi resta del ricordo di uno splendido periodo che abbiamo vissuto insieme. Ma va bene così.

In fondo è così che va la vostra vita.

Ti leggo nel pensiero

Alan aveva deciso quella mattina di recarsi al lavoro a piedi, godendosi i tiepidi raggi del primo sole primaverile tagliando per il parco, invece di ingolfarsi nel caotico e snervante traffico dei lavoratori mattinieri che mettevano a dura prova cuore e polmoni, incolonnati nelle loro scatole metalliche a perdere il tempo più inutile e controproducente di tutta la giornata.

Mentre transitava, assorto nei suoi pensieri, sotto uno degli enormi alberi del parco, un ramo per fortuna non troppo grande, forse indebolito da qualche recente temporale, si staccò dal tronco e precipitò colpendo Alan esattamente al centro della testa.

L’uomo si portò istintivamente le mani al capo mentre la vista gli si annebbiava per un attimo e fece in tempo a raggiungere una panchina vicina per sedersi, temendo di svenire.

Credeva di essersi aperto la testa e continuava a tastarla accorgendosi poi, con gran sollievo, che non c’era niente di rotto, nessuna ferita sanguinante, solo l’accenno di un bozzo che sarebbe diventato, con ogni probabilità un notevole ematoma.

Dopo qualche minuto in cui aveva preferito restare in posizione seduta, dopo aver fatto un paio di tentativi di mettersi in posizione eretta senza nessun effetto particolare, decise di riprendere il cammino verso l’ufficio, dove, una volta arrivato, avrebbe subito messo del ghiaccio per tamponare gli effetti della botta.

Si sentiva stranamente rinvigorito, l’unica cosa particolare era un certo brusio che percepiva in sottofondo, come una serie di voci che si sovrapponevano sussurrando nella sua testa. “Sicuramente sono gli effetti della botta che ho appena preso…passerà” pensò Alan mentre procedeva a passo spedito verso il suo luogo di lavoro.

Giunto all’ingresso dello stabile in cui si trovava lo studio di architettura in cui lavorava, salutò il custode augurandogli il buongiorno e mentre riceveva analogo saluto, dalla stessa direzione percepì, in maniera sovrapposta, ma chiaramente udibile la frase “buongiorno un cazzo”.

Alan si arrestò di colpo guardandosi attorno, non riuscendo a capire la fonte di quello che aveva ben udito, visto che nel portone erano presenti soltanto lui ed il custode. Non vedendo nessuno scosse il capo e si avviò verso l’ascensore credendo che fosse stato uno strano effetto dovuto alla botta da poco ricevuta.

Giunto in ufficio salutò la segretaria avviandosi verso la sua stanza, udendo stavolta distintamente una voce che gli sussurrava “non sopporto questo posto e gli stronzi che ci lavorano”. Ancora una volta Alan si bloccò voltandosi di scatto verso la segretaria che gli indirizzò un sorriso che sembrò falso come un Rolex thailandese.

Ancora una volta non c’era nessun altro e quindi non riusciva a spiegarsi da dove provenisse quella voce che egli aveva ancora una volta nettamente percepito.

Si sedette alla sua scrivania un po’ confuso e frastornato, non capendo se la sensazione derivasse dalla botta presa nel parco oppure da quelle voci a cui non sapeva dare una spiegazione razionale.

In quel momento entrò nella sua stanza Erik, il responsabile con cui aveva un progetto importante in condivisione che dovevano consegnare di lì a breve.

“Ciao Alan, a che punto sono i disegni del progetto?”

“Quasi completati Erik, prima della fine della mattinata ci vediamo per verificare il lavoro ed oggi pomeriggio andremo sul cantiere fuori città”, rispose Alan.

“Sarà il solito lavoro fatto col culo…e dovrò restare in ufficio sino a notte fonda per correggere le cagate che hai combinato”. La voce giunse fin troppo nitida ai sensi di Alan per non fargli pensare che fosse uno scherzo della sua percezione. Aveva osservato Erik che non aveva mosso le labbra per esprimere alcuna parola ma era assolutamente convinto che quei suoni che gli erano giunti erano una specie di pensiero ad alta voce che il suo collega aveva espresso a livello mentale.

“Scusami Erik, devo fare una telefonata urgente, ti spiace se ci aggiorniamo più tardi per parlarne?”.

“Non c’è problema Alan, passa da me appena puoi”.

Non riusciva a capacitarsi di quello che stava accadendo, sembrava che…per qualche misteriosa ragione, riuscisse a sentire con i sensi comuni quello che la gente attorno a lui pensava senza esprimerlo…ma non poteva essere possibile…a meno che…ma si…la botta in testa che ho appena ricevuto, chissà, deve avermi misteriosamente attivato un’area del cervello che mi consente di udire sensibilmente i pensieri della gente che mi sta attorno.

Euforico, ma allo stesso impaurito per questa teoria inverosimile che aveva partorito, aveva bisogno di sperimentare se la sua idea era corretta e non il frutto di una patologia mentale nascosta che aveva iniziato a manifestarsi proprio in quel momento.

Uscì dalla sua stanza e si recò da Alicia, la responsabile dell’amministrazione, che sapeva essere da tempo invaghita di lui ma che non aveva voluto mai frequentare ed illudere.

“Ciao Alicia, come va stamattina, passato una bella serata ieri?”

“Niente di che Alan, l’ho passata a casa a guardare la TV. A te tutto bene?”. “Si, grazie, anche io nulla che valga la pena raccontare”, rispose. Alle parole uscite dalle labbra di Alicia si sovrapposero altre, parimenti udite da Alan altrettanto chiaramente… “Se fossi venuto a casa mia ci saremmo divertiti entrambi…”.

Stavolta la meraviglia e lo shock iniziarono a lasciare il posto ad una sottile e strana soddisfazione, poiché stava avendo la conferma che si stesse verificando esattamente quello che pensava: riusciva a sentire i pensieri degli altri.

Prese congedo dalla ragazza adducendo ancora la scusa di una telefonata importante che aveva ricordato di fare e tornò a sedersi nella sua stanza per riflettere su quello che gli stava capitando. Le cause erano certamente legate al colpo ricevuto in testa nel parco ma a quel punto era inutile riflettere sul perché, piuttosto sulle implicazioni che da quello ne sarebbero derivate. Forse era sempre stato il sogno di tutti riuscire a leggere i reconditi pensieri della gente ma davvero era una cosa positiva? Voleva davvero sapere cosa gli altri pensassero di lui? A cosa sarebbe servito mettere a nudo l’anima di chi gli stava di fronte? Iniziava a sentirsi come un ladro che, senza volerlo, si insinuava nella stanza più segreta della casa rovistando negli angoli più nascosti.

Questi pensieri iniziarono a dargli un certo mal di testa, per cui decise di avvisare che non si sentiva bene e che sarebbe tornato a casa.

Rientrando si imbattè in Jason, il suo amico e vicino di casa a cui disse appunto di star rientrando dal lavoro perchè non si sentiva troppo bene. “Sarà certamente per quelle schifezze che cucina tua moglie”. Alan percepì quello che doveva essere il pensiero di Jason tra le parole di circostanza che invece stava esprimendo ad alta voce e gli venne da sorridere. Anche lui sapeva che Jane non era una gran cuoca.

Una volta a casa decise di dormirci sopra. Con la mente riposata da un paio di ore di sonno avrebbe forse visto tutto più chiaro… o chissà… quello strano fenomeno sarebbe scomparso così come era apparso.

Si risvegliò proprio mentre sua moglie Jane stava rientrando a casa dal lavoro e fu alquanto stupita di trovarlo a letto a riposare. Alan le raccontò che era rientrato prima dallo studio per un malessere cercando di decidere se metterla al corrente anche di quello strano fenomeno che gli stava capitando. La baciò e si stava recando in bagno mentre udì distintamente un pensiero di sua moglie che lo bloccò. Dovette appoggiarsi al mobile accanto per non perdere l’equilibrio e metabolizzare il pensiero di Jane che aveva appena udito.

“Accidenti, oggi non potrò vedermi con Patrick…devo avvisarlo subito”. Patrick era il suo amico dai tempi dell’università ed aveva sempre avuto un debole per Jane e adesso stava realizzando che i due avevano una relazione. Fece dietrofront e si avvicinò in silenzio verso la cucina dove, in un angolo, Jane stava sommessamente parlando al cellulare, era sin troppo ovvio con chi.

Tornò in camera da letto dove si rivestì in fretta e, senza profferire parola, raccolse chiavi e portafoglio precipitandosi fuori di casa nel tiepido sole di quel pomeriggio. Aveva bisogno di pensare, riflettere su tutto, il lavoro, il suo matrimonio, e quel maledetto e sconosciuto “potere” che gli stava mandando a monte tutta la vita…ed erano passate solo poche ore da quando era successo. Chissà cos’altro lo aspettava. Si sarebbe trovato ben presto da solo, senza amici, senza moglie e senza lavoro…tutto per colpa di uno stupido ramo che gli era caduto sulla testa.

Giunto nel parco, si sedette sulla stessa panchina dove poche ore prima aveva avuto origine l’evento che gli stava rivoluzionando l’esistenza. Alan si trovò a riflettere sul fatto che si riteneva che il cervello utilizzasse solo il 7% delle proprie capacità e, tra il non trascurabile 93% rimanente, c’era sicuramente la facoltà di leggere i pensieri che in lui si era attivata in maniera del tutto fortuita. Ma lui non era pronto per un dono del genere, essere dotati in un mondo livellato verso il basso nello sviluppo cerebrale riusciva a generare solo una indicibile sofferenza, come quella che stava sperimentando Alan in quel momento.

Non era mai stato un cattolico convinto, ma in quel preciso istante si trovò a pregare con fervore Dio perché lo liberasse da quell’inferno, restituendogli la sua vita normale.

Dopo un tempo indefinibile trascorso su quella panchina, Alan si alzò per proseguire il suo cammino, non avendo intenzione di tornare a casa perché non sapeva ancora come far fronte alla situazione.

Mentre attraversava la strada all’uscita del parco, immerso del tutto nei suoi pensieri, non si avvide di un’auto che, sbucata dalla curva alla sua destra, lo centrò in pieno. Il buio lo avvolse.

Stava riaprendo gli occhi a fatica sotto una forte luce al neon che gli dava fastidio. Aveva un gran mal di testa e si rese ben presto conto di essere disteso in un letto di ospedale.

In quel momento avvertì la presenza di alcune persone accanto a lui che entrarono nel suo campo visivo oscurando quella fastidiosa luce che gli feriva gli occhi.

Riconobbe subito il suo amico Patrick e sua moglie Jane visibilmente sollevati che gli stavano sorridendo mormorandogli parole del tipo “andrà tutto bene”, “sei stato investito da un’auto”.

Tutto il resto era pace e silenzio.

Alan, stringendo con amore la mano di Jane disse le sue prime parole da quando ebbe ripreso conoscenza: “Tesoro, ma che mi è successo? Non ricordo nulla”. Lei e Patrick si guardarono per un attimo poi gli sorrisero benevoli. La sua preghiera era stata esaudita, l’effettiva realtà è un peso troppo gravoso da sopportare…