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Il circo della luna piena

Questa è la favola del circo della luna piena, uno spettacolo fantasmagorico con numeri di artisti ed animali che provenivano da ogni pianeta della galassia, esibendo abilità così particolari da lasciare a bocca aperta tutti quei fortunati spettatori che avevano la possibilità di procurarsi un biglietto.
Infatti al “full moon circus” non poteva accedere chiunque, perchè non si svolgeva nella realtà ma soltanto nei sogni ed il biglietto di ingresso non poteva essere acquistato in denaro da nessuna parte ma veniva offerto in sogno da un personaggio strano che si faceva chiamare Keter, il quale sceglieva, a suo insindacabile giudizio, ogni essere che meritava di assistere alle meraviglie spettacolari del circo della luna piena.
Lo spettacolo si svolgeva ogni 29 giorni ed una volta raggiunta la capienza prevista con coloro che erano stati prescelti, Keter, che aveva il ruolo di presentatore, organizzatore e si diceva anche che fosse l’assoluto signore del circo, appariva nei loro sogni vestito con un abito blu trapuntato di stelle argentate con un cilindro in testa che emanava fiamme rosso fuoco e recitava ad ognuno frasi in rima del tipo “non lasciare che la tua vita sia un circo, a questo spettacolo sei stato invitato e qui nessuno è mai stato ammaestrato. Ecco qui il tuo biglietto, non dirlo a nessuno e tienilo stretto”.
Ed ecco che nello spazio enorme del tendone, tra odori galattici e spettatori variopinti ma meritevoli, aveva luogo lo spettacolo degli spettacoli, introdotto da Keter che, al centro di un occhio di bue di luce, esordiva sempre con le stesse parole: “siete svegli o state sognando? questo è lo show del come e del quando. Il come lo decidiamo noi, se adesso o dopo lo decidete voi. Non ci son trucchi nè cose obbrobriose, aprite la mente, persone meravigliose… che lo spettacolo abbia inizio…”
Il circolo di intensa luce proiettato sulla rilucente figura di Keter andava quindi restringendosi poco alla volta come un’eclissi, sino a diventare un raggio puntiforme che si rifletteva sulla stella argentata più grande che era cucita sul taschino del suo strano abito, all’altezza del cuore, sino a scomparire del tutto, lasciando il tendone del circo per qualche attimo in un buio silenzioso un pò irreale, al punto che gli spettatori, affascinati da quella presentazione spettacolare, in attesa di ciò che sarebbe venuto dopo, trattenevano il respiro per tutta la durata dell’assenza di ogni luce e rumore.
Lentamente come si era assopita, la luce iniziava a tornare tramite l’accensione dei fari del tendone a strisce gialle e blu, uno alla volta, emettendo uno schiocco che faceva roteare le teste degli spettatori da una parte e dall’altra come se stessero assistendo ad una partita di tennis.
Quando tutte le luci furono accese, voci e risate iniziarono a riempire il vuoto del tendone che faceva da cassa acustica, ma ben presto furono sovrastate da una musica che sembrava la colonna sonora di una di quelle vecchie filastrocche per bambini…paraponziponzipà.
Dalle tende sul fondo fece il suo roboante ingresso un coloratissimo clown che così si presentò: “Saluti a voi, grandi e piccini, io sono Tabby, re pagliaccio, col mio sorriso le lacrime scaccio, ma sempre una resterà sul mio volto, solo a memoria di ciò che mi han tolto. E’ questo un sogno, oppur la realtà? Lasciate i pensieri e chi vorrà, scoprirà”.
Il clown Tabby era altissimo, più di tre metri, ma non per il solito trucco dei trampoli, perchè riusciva a piegare le ginocchia, quindi doveva essere un abitante di un pianeta dove quella era l’altezza normale.
Tabby suonava anche un lucentissimo trombone con l’apertura verso l’alto, da cui sparava fuori, insieme alla musica, palle colorate che faceva cadere, con precisione incredibile, nella parte posteriore dei suoi lunghissimi pantaloni a fantasia scozzese, tirando l’elastico ogni volta che la palla ricadeva, senza mai fallire. Le persone lo guardavano incantate, perchè sembrava che il flusso delle palle che uscivano dal trombone fosse ininterrotto e si alimentasse da quello che ricadeva nei pantaloni del clown come l’acqua di una fontana.
Dall’apertura sul fondo usci, ad una velocità incredibile, un cavallino bianco delle dimensioni che sulla Terra poteva avere un cane di taglia media che si infilò tra le lunghe gambe di Tabby facendolo rovinare a terra, e le risate del pubblico sembrarono un boato che in quel momento sovrastò la musica. A quel punto fece il suo ingresso un esserino così piccolo che nessuno notò sino a quando montò in sella al piccolo cavallo e, con in mano un megafono, piccolo ma molto potente, iniziò a fare svariati giri della pista rotonda sollevando minuscole nubi di segatura, così cantando: “sono Golìa ma non sono un gigante, di cose belle ne ho viste tante, il mio amico Tabby sembra così grande, ma l’apparenza inganna e l’ho lasciato in mutande. Non giudicare mai dall’altezza ma solo dagli occhi e dalla dolcezza”.
I numeri si susseguirono con animali che a molti risultarono sconosciuti per forme e dimensioni, ma in nessuna esibizione furono allestite gabbie ed apparvero domatori con fruste e cerchi infuocati, ed alla fine dello spettacolo, che aveva letteralmente mandato in visibilio i fortunati spettatori, facendo loro dimenticare completamente ogni loro preoccupazione, ecco riapparire al centro della pista Keter con il suo abito trapuntato di stelle che fece il suo annuncio finale al centro dell’occhio di bue: “Gente dell’alto, amici del basso, lo spettacolo continua, restate al passo. Vi sveglierete nelle vostre realtà, ma il vero è lì oppure sta qua? Non smetteremo mai di sognare e sognatori ancora invitare, al nostro spettacolo che fa volare, perchè se anche da sveglio non sogni, rimarrai schiavo di falsi bisogni. Or tra le stelle Keter vi saluta, ogni occasione non è mai perduta, perchè se un sogno si deve avverare nessuna stella lo può fermare. Alza il tuo sguardo e guarda il tuo centro, sembra sia fuori invece sta dentro.”
Ancora una volta la luce si andò restringendo sempre di più, finendo col brillare sulla solita stella dell’abito di Keter e quando si spense del tutto, gli spettatori si ritrovarono nel buio dei loro occhi addormentati mentre li riaprivano lentamente alla luce della loro vita di tutti i giorni.
Molti di loro, al risveglio, credettero di aver sognato, inconsapevoli del fatto che tante altre persone, in luoghi differenti, si stavano risvegliando come loro, avendo nei ricordi esattamente lo stesso sogno.

Ciccio il riccio

Una bella serata di primavera, in una radura, al bar della quercia caduta, gli animali del bosco stavano discutendo dell’organizzazione di un party per celebrare l’inizio della bella stagione con danze e balli in quel largo spazio nascosto nel bosco delle 7 querce.

Zazà la volpe si propose subito come organizzatrice dicendo che avrebbe pensato lei a tutto facendo pagare un certo prezzo per i biglietti di invito, ma tutti gli altri animali, visti i precedenti di creste e maneggi vari che Zazà aveva fatto in precedenza, presentandosi con bosko cola sgasata e pasticcini rubati al discount, decisero che ognuno avrebbe portato qualcosa e la festa sarebbe stata ad ingresso libero…così le dissero di portare solo l’uva.

Tino lo scoiattolo avrebbe fatto preparare alla sua dolce metà dolci di mandorle e ghiande, Gegè la marmotta avrebbe pensato alla frutta con more, mirtilli ed altri frutti di bosco, Mimmo il cervo e Nico il daino ad insalata e pinzimoni, mentre Mario l’orso e Alberto il lupo avrebbero pensato a salsicce e prosciutti. Le bevande sarebbero state appannaggio di Teodoro il castoro che aveva un laboratorio clandestino di whisky ed acquavite sotto la sua diga sul fiume, oltre ad una discreta scorta di casse di birra.

La sera prefissata, Albertino il tasso, nel giro chiamato “il puttaniere” perchè pagava le tasse, montò il suo impianto stereo con l’aiuto di un coro di cicale che lo avrebbero accompagnato dal vivo nell’occasione.

Sotto l’effetto dei drink di Teodoro ben presto la festa entrò nel vivo. Pasquale il cinghiale faceva a gara con Mario l’orso a chi ballava più goffamente, mentre Selene la talpa andava a sbattere continuamente contro tutti e continuava ad invitare a ballare alberelli e cespugli non riuscendo a scorgere la differenza con gli altri invitati.

Luciano l’alce si era messo in disparte, affranto dall’ennesima storia d’amore finita male con una daina dalle curve mozzafiato che però gli aveva piazzato un paio di corna esagerate…era un vizio di famiglia…

Quando Tonino il gufo, guardando il cielo, disse che secondo lui stava per piovere gli arrivò dritta sul becco una ghianda tiratagli da Mirna la lince che gli urlò di non fare il solito menagramo.

In un angolo della radura stava, con un’aria molto triste, Ciccio il riccio, il quale non riusciva ad inserirsi nel clima di divertimento come avrebbe voluto. Con i suoi aculei non gli si avvicinava nessuno, aveva già distrutto un numero considerevole di piatti e bicchieri di plastica ed inoltre aveva bucato quasi tutti i palloncini che erano stati messi per la festa, tanto che ad ogni mossa o passo di danza ne esplodeva uno e tutti dovevano correre a nascondersi pensando che ci fosse qualche cacciatore nei paraggi.

Aveva provato ad invitare una bella leprotta a ballare qualche lento ma dopo la prima puntura lei si era allontanata di corsa. Persino Selene la talpa aveva rifiutato di ballare con lui, per cui il povero Ciccio era lì a rimuginare su cosa fosse passato per la testa del creatore per avergli fatto un fisico simile.

Ad un certo punto notò, al buffet, una splendida riccia che stava mangiando i lamponi portati da Gegè la marmotta e siccome pareva avesse sbevazzato qualche cocktail della cambusa di Teodoro, si stava divertendo a lanciarli in aria cercando di prenderli al volo con la bocca. Naturalmente ne centrava uno su dieci e gli altri si andavano ad infilzare sui suoi aculei che erano per questo motivo diventati di un fantastico rosso.

Ciccio ne restò colpito e si avvicinò alla bella riccia, deciso a fare la sua conoscenza. Nell’avvicinarsi a lei graffiò Casimiro il ghiro che stava beatamente ronfando seduto su un tronco e che gli lanciò una serie di bestemmione che avrebbero fatto impallidire un ultrà dell’Atalanta oltre ad una salsiccia che gli si infilzò tra gli aculei delle parti basse. Dal momento che non aveva intenzione di presentarsi alla bella riccia con un look alla Riccio Siffredi con quella salsiccia posticcia, chiese ad Alberto lupo di togliergliela e quest’ultimo acconsentì, estirpandogli però anche l’aculeo nel quale si era infilzata divorandola in un boccone stile spiedino.

Libero dall’appendice posticcia, Ciccio si spruzzò un pò di eau de sottobosque…che portava sempre con sè e si avvicinò alla bella riccia che stava continuando a ricoprirsi di lamponi. Al lancio dell’ultimo in aria, le si avvicinò tanto che il frutto andò dritto nella bocca di Ciccio che lo masticò con gusto offrendo alla riccia uno sguardo languido e compiaciuto.

“Come ti chiami?” Le chiese.

“Rossella” rispose la riccia.

“Un nome che ti si addice molto, vuoi ballare?”

Con l’eleganza tipica del riccio, Ciccio la portò al centro della pista ed i loro aculei si intrecciarono dolcemente mentre partivano le note di “starway to heaven”…

Morale: anche se vivi una vita da solo, e ti sembra di essere fuori posto quando tutti intorno a te si divertono, ci sono momenti in cui è dolce anche stare sulle spine se c’è qualcuno con cui condividerlo…

 

 

La strana storia di una foca

Al quinto giorno della faticosa creazione della Terra e di tutti gli esseri che l’avrebbero abitata, Dio si trovò a dover organizzare la dislocazione delle creature che aveva partorito nella sua divina genialità, come se dovesse appiccicare le figurine su un album completamente vuoto. Si convinse che un compito del genere poteva essere affidato ad un software del suo God computer che aveva appositamente creato con il simbolo del primo frutto da Lui ideato, la mela, che però quell’ingordo imbecille di Adamo aveva morsicato malgrado il suo espresso divieto, sobillato dalla sua dolce metà, tale Eva, che fin da subito gli stava creando problemi di ordine e disciplina con le sue tentazioni. Si appuntò che avrebbe dovuto correggere quelle sbavature creative, magari riducendo di un paio di misure le tette di Eva, ma in seguito gli passò di mente.

Guardò con disappunto il suo PC con la mela morsicata e studiò un’app che sistemasse tutti gli esseri viventi nelle zone del globo più adeguate alle loro caratteristiche.

Sarebbe bastato inserire il nome e la foto di ogni singolo essere nel riquadro dell’app, che ribattezzò “Animal house”, per ottenere la zona più appropriata in cui far nascere i primi esemplari di quella specie.

Ai suoi esseri prediletti, uomo e donna, aveva riservato un posto privilegiato nel resort a 5 galassie extralusso che aveva chiamato “Eden”, da cui aveva bandito i due maggiori flagelli, le malattie e la politica, ma la loro bravata d’esordio alla sua mela lo aveva fatto veramente incazzare, al punto che si era riproposto, per i prossimi 20 milioni di anni, di non farli mai più rientrare e di sistemarli invece sul pianeta insieme a tutti gli altri, con annessi di malattie, cataclismi e politici dementi così avrebbero imparato a vivere. “Tra qualche milione di anni vediamo come si comportano e poi eventualmente deciderò se riammetterli nell’Eden”, si disse (da fonti autorevoli si è venuto a sapere che, in base alla situazione attuale, ciò non avverrà mai).

Volendo comunque mettere alla prova le loro abilità in condizioni differenti, sparse gli uomini un pò a caso su tutto il globo, mandando quelli dalla carnagione più chiara nei posti con poco sole e quelli dalla pelle più scura laddove il sole batteva implacabile tutto l’anno, in modo tale che l’abbronzatura non diventasse uno status symbol e si sentissero tutti uguali, per il resto si sarebbero arrangiati.

Poi prese ad inserire i dati di tutti gli animali nell’app “animal house” e distribuì questi ultimi in base alle zone in cui le loro caratteristiche avrebbero trovato facile adattamento per la sopravvivenza.

Non si accorse che, per un bug nel programma, la foca, la quale avrebbe dovuto essere mandata principalmente ai poli per le sue evidenti caratteristiche, venne invece spedita in Africa.

Subito la foca si rese conto che qualcosa non andava. Quasi tutti gli animali che vedeva intorno avevano lunghe zampe con cui correvano come matti, chi inseguiva e chi era inseguito, uno in particolare la stupì. Aveva il collo così lungo che la foca, che invece il collo non lo aveva neanche, non riusciva neanche a vedere dov’era la testa…pensava che avesse la testa fra le nuvole. Poi si rese conto che a lei piaceva un sacco il pesce, ma di pesce lì intorno neanche l’ombra…poi con quel maledetto caldo si sarebbe accontentata anche soltanto dell’ombra senza il pesce.

Quindi fece di necessità virtù e si fece vegetariana. La prima volta che provò a mangiare verdure stette malissimo.

Una volta si trovò a tu per tu con un leone. Il bestione aveva un fare minaccioso ma la guardava con stupore. Lui, da animale qual’era, evidentemente aveva concluso che le prede commestibili bisognava catturarle correndo, insomma il pane se lo doveva sudare, invece quella foca stava lì immobile che lo fissava coi suoi occhioni senza muoversi. Pensò che sicuramente non era buona da mangiare.

Ben presto tutti si accorsero che la foca, per quanto simpatica e carina, in quell’ambiente combinava soltanto disastri. Gli animali, nelle loro folli corse, inciampavano su di lei, o venivano schizzati dal fango quando trovava qualche pozzanghera con un pò d’acqua dove cercava di sguazzare e la intorbidiva tutta. E poi quel dannato caldo…

Un giorno decise di spingersi un pò oltre quell’ambiente inospitale ed arrivò alle porte di una missione dove una monaca la trovò che saltellava con difficoltà e visibilmente provata. La monaca realizzò che dovesse trattarsi di quell’animale strano di cui tutti parlavano nella savana, che faceva fare uno strano verso a tutti gli animali quando se la trovavano tra le zampe… “fo-ka” “fo-ka”, probabilmente era un abbreviativo per “fottuta kakakazz” e quindi la foca venne accolta nel villaggio e le venne dato il nome di Avvo Katola, che in Swaili significa “umano geloso o petomane folle”.

Si trovò ben presto più a suo agio in quel nuovo contesto e tutta la gente del villaggio, principalmente i bambini, le si affezionarono moltissimo. Faceva versi buffi ed aveva doti che tutti iniziarono ad apprezzare col tempo. Aveva uno splendido carattere ed anche uno straordinario senso dell’equilibrio, dentro e fuori, infatti una volta che un bambino aveva provato a lanciarle una palla, Avvo Katola era riuscita a tenerla sul muso immobile senza farla mai cadere, sintomo di grande intelligenza e concentrazione. Ogni bambino del villaggio voleva stare con lei a giocare e la foca trascorreva le ore con loro molto volentieri.

Un bel giorno Dio, facendo una verifica della situazione degli esseri viventi sulla Terra, si accorse di aver commesso un imperdonabile errore: aveva mandato la foca in Africa! Ma anche lui forse commise un secondo errore e rimandò la foca nel suo habitat preassegnato.

Una volta arrivata al polo la foca si rese conto di essere una delle tante, di non essere più apprezzata per le sue doti e qualità e, anche se c’era un sacco di pesce da mangiare ed acqua a volontà, faceva un pò troppo freddo per i suoi gusti. A quel caldo ci aveva ormai fatto l’abitudine. E poi non c’erano nè palle nè il sorriso dei bambini con cui giocare, niente risate, niente divertimento, la notte durava mesi interi ed il sole non scaldava. L’unica caratteristica che aveva conservato era quella di combinare casini nuotando ed andando a sbattere contro tutti quelli del branco di cui faceva parte. Poi c’erano tanti animali, in acqua e fuori che volevano mangiarsela.

La foca, quindi, ben presto finì con l’intristirsi, non si sentiva apprezzata, non riusciva a trovare un ruolo nel branco che le desse soddisfazione, quindi chiese a Dio di farla ritornare dai suoi bambini in Africa, dove aveva conosciuto la felicità e l’amore per le cose semplici.

“Ma una foca che si rispetti deve stare nel mare” tuonò Dio allorquando udì la supplica della sua creatura. Però, resosi conto che la foca era molto triste, nella sua benevolenza l’accontentò, e lei potè tornare finalmente a sorridere tra i suoi bimbi.

Non è detto che il luogo in cui nasci, con le regole e le comodità che vengono ritenute le migliori, sia il posto adatto a te. Il tuo posto è ovunque sorride il tuo cuore.

Dedicata a chi apprezza le favole… 😉

Favola della buonanotte

Era una irrinunciabile tradizione per Adam quella di leggere la favola della buonanotte a suo figlio Jack prima che si addormentasse. Ma quella sera era troppo stanco ed aveva dimenticato gli occhiali di sotto, quindi si trovò costretto ad improvvisare, andando a braccio.

“C’era una volta una nazione potentissima che governava il mondo ed aveva fatto dei suoi valori di libertà il simbolo di tutto il pianeta. Era una grande nazione piena di eroi e paladini con spade o pistole che andavano in giro per la terra a scovare e ad uccidere tutti i cattivi che sfruttavano la gente, e le gesta di questi eroi erano tutte documentate nei film che tutto il mondo poteva vedere al cinema.

Ma esisteva, in un posto sperduto e molto lontano, un uomo molto cattivo che voleva distruggere questa nazione perchè odiava la ricchezza e la bontà della sua gente. Era un vecchio ammalato con una lunga, ispida barba ed un turbante bianco in testa che viveva sepolto nelle caverne di uno sperduto paese dove anche le capre facevano fatica a sopravvivere.

Era nato in una famiglia molto ricca ed aveva moltissimi soldi ma in quel posto sperduto in mezzo al nulla non sapeva proprio cosa farsene, dato che non c’era nemmeno un negozio e tantomeno un supermercato pieno di cazzate come ci sono qui. Aveva provato anche a comprarsi delle belle macchine ma nel paese in cui viveva non c’erano neanche le strade e quindi le auto si rompevano subito e la sua rabbia crebbe sempre di più nei confronti di tutti quelli che avevano a disposizione delle belle strade asfaltate su cui far correre le loro macchine.

Provò ad ordinare su internet alcuni bei costosi vestiti di stilisti famosi ma era troppo magro e poi la polvere glieli sporcava subito; inoltre non c’erano mai feste in quello sfortunato paese quindi lasciò perdere i vestiti e tornò ad indossare la sua camicia da notte ed il turbante.

Siccome era appassionato di calcio provò, con i suoi soldi, ad acquistare una squadra di calcio del suo paese, che chiamò la Kabullentus e contattò persino Messi e Cristiano Ronaldo perchè andassero a giocare nel suo paese, ma lo mandarono tutti a cagare, compresi i giocatori della serie C turca, quindi abbandonò anche il sogno del calcio.

Allora decise che avrebbe utilizzato tutte le sue risorse per vendicarsi del simbolo della ricchezza, che lui pure aveva ma che non poteva sfruttare.

Acquistò molte armi per compiere una serie di attentati contro quell’odiosa nazione e, quando ereditò tutta la fortuna di famiglia, decise che avrebbe sferrato il grande attacco al centro del potere di quel grande Paese.

Organizzò le cose per dirottare tre grandi aerei che si sarebbero abbattuti sui simboli del potere di quella nazione, uccidendo migliaia di persone e perforando le invalicabili difese per cui quel grande Paese era famoso in tutto il mondo. Una specie di videogame dal vivo, visto che non c’era neanche un negozio dove comprare una Playstation 4.

Perforò quelle difese come burro, i suoi soldati passarono indenni tutti i controlli e si misero al comando di quegli aerei che abbatterono due enormi grattacieli e distrussero un’ala dell’edificio più sicuro del pianeta ed il suo nome divenne famoso, dandogli infinita soddisfazione. Adesso poteva morire felice. E così fu.”

Jack aveva ascoltato la favola con l’attenzione rapita che solo un bambino può avere, ci riflettè un attimo poi, sorridendo, disse al suo papà: “Che bella favola fantasiosa! Ma è impossibile compiere tutto questo da parte di un vecchio sepolto nelle caverne di uno sperduto Paese!”

“Infatti, Jack”, rispose suo padre. “Ma pensa che tutto il mondo se l’è bevuta”.

Una favola qualunque

Nel regno di Gaianuaku i cittadini godevano di una certa ricchezza dovuta alla bontà e munificenza del loro re, il quale non vessava la gente con tasse e balzelli ma permetteva che tenessero per loro la maggior parte dei raccolti e delle loro ricchezze.

L’agio dei cittadini di Gaianuaku era unico rispetto a quello dei regni vicini che dovevano invece sottostare a tiranni ingordi e disinteressati al benessere dei loro sudditi.

Un giorno il giovane Hermes, giunto con suo padre al mercato di Gaianuaku da uno dei regni confinanti per vendere i loro miseri prodotti, sperando di ottenere un prezzo migliore, rimase molto colpito dalla bellezza del villaggio, delle sue case e dei vestiti dei suoi abitanti che vedeva per la prima volta nella sua vita. Hermes non conosceva il sentimento dell’invidia ma sapeva apprezzare la bellezza e tutto in quel posto gli sembrava meraviglioso, tanto che la sua mente priva di malignità lo portò a pensare che anche la gente del villaggio dovesse essere altrettanto meravigliosa.

In una delle poche pause dal lavoro si sedette su di un muretto a mangiare una mela e si trovò a fare conoscenza con dei suoi coetanei che stazionavano li vicino a chiacchierare tra di loro mangiando succulenti panini con la carne che si guardarono bene dall’offrirgli. All’inizio li trovò simpatici ed incuriositi per quello straniero così diverso da loro ma presto iniziarono a fargli domande su chi era, da dove venisse e ciò che possedeva, come se quello fosse tutto quello che gli interessava sapere. La povertà di Hermes fece cambiare atteggiamento ai ragazzi che iniziarono a schernirlo ed a definirlo “barbone” e “pezzente” prendendosi gioco di lui.

In quel momento un cane, in condizioni davvero penose, passò loro accanto, così magro che sembrava non mangiasse da giorni e quando si avvicinò al gruppo, malgrado l’odore della carne lo avesse attratto, si avvicinò ad Hermes che non potè che dividere metà della sua mela con la sventurata bestiolina.

I ragazzi iniziarono a ridere sguaiatamente tirando pietre alla sventurata creatura, urlando che un pulcioso aveva riconosciuto subito un suo simile e che insieme facevano certamente una bella coppia. Hermes si frappose tra la povera bestiola e quei ragazzi trascinandola via con se fino ad arrivare al carretto di suo padre. Il genitore, appena vide il cane, inveì a sua volta contro Hermes urlando che non voleva quel sacco di pulci accanto al suo carro e che nessuno si sarebbe avvicinato a comprare le sue merci con quella bestia li vicino.

Hermes si perse negli occhi teneri ed imploranti di quello sfortunato cane dicendo al padre che non lo avrebbe abbandonato e che sarebbe rimasto con lui.

Allontanatosi con la bestiola che lo seguiva, si trovò ad attraversare le strade del villaggio mentre la gente si scansava al loro passaggio tirando bucce di patate e deridendoli chiedendosi ad alta voce chi avesse più pulci, se lui o il cane…

Hermes aveva solo seguito il suo cuore ed aiutato una creatura in difficoltà e, per questo, si trovava ad essere deriso e messo ai margini della società. Improvvisamente si trovò a riflettere come tutta quella felicità e quel benessere avessero inaridito l’animo delle persone e quel posto non gli appariva più il paradiso che aveva creduto che fosse.

Proprio in quel momento, mentre evitava l’ennesima pietra che gli lanciavano contro, udì l’avvicinarsi di una carrozza trainata da una schiera di cavalli bianchi e subito si fece da parte avvicinando a sè la povera bestiola.

Giunta alla sua altezza, la carrozza improvvisamente si fermò ed Hermes notò che tutti quelli che fino a poco tempo prima stavano insultandolo e lanciandogli oggetti, si inchinarono. Dalla carrozza ne discese quello che doveva essere il re, seguito da una misteriosa e bellissima fanciulla dall’aria molto triste. Il sovrano e la ragazza venivano proprio nella sua direzione ed Hermes ritenne che fosse opportuno inchinarsi al re ed a quella che, con ogni probabilità era sua figlia la principessa. Notò anche che il suo nuovo amico a quattro zampe stava dimenando la coda alla vista della ragazza che stava venendo loro incontro.

“Angel!” gridò la ragazza appena vide il cane, correndogli incontro ed abbracciandolo. La bellissima ragazza sembrò aver ritrovato un sorriso che doveva aver perso da tempo mentre ricopriva di baci il cane.

A quel punto avvenne una cosa strana. Sembrò che la bestiola stesse comunicando alla principessa che quell’incontro e la sua salvezza fossero dipesi da quel giovane male in arnese che il cane continuava a guardare.

“Come ti chiami, giovane straniero?” chiese ad Hermes la principessa.

“Hermes, vostra altezza. Sono venuto dal vicino regno di Soul per vendere con mio padre le nostre merci. Qui è tutto meraviglioso e ricco, ma l’unico amico che ho trovato è stato lui” fece indicando il cane.

“se vorrai, giovane Hermes” disse il re intromettendosi nel discorso, “sarò felice di averti ospite d’onore a palazzo dove potrai avere un lavoro e tutte le ricchezze ed i privilegi che desideri perchè grazie a te mia figlia ha ritrovato il sorriso”.

Il ragazzo accettò volentieri, riflettendo su come la strada verso il paradiso passasse attraverso l’amore per qualunque forma di vita bisognosa d’affetto piuttosto che nella ricerca affannosa dell’inutile riconoscimento sociale.